giovedì 30 ottobre 2008

Tra debiti e divieti i Comuni non fanno opere pubbliche

Corriere della Sera

ROMA- Il sindaco di Benevento Fausto Pepe, già esponente di spicco dell'Udeur di Clemente Mastella, avrebbe volentieri fatto a meno della bacchettata che la Corte dei conti ha assestato alla sua amministrazione il 24 luglio scorso. Purtroppo però, anche il suo comune è scivolato nel tritacarne dei derivati: ad agosto dello scorso anno ha dovuto negoziare un nuovo contratto, visto che l'operazione di swap stipulata l'anno prima avrebbe potuto determinare una perdita di oltre nove milioni di euro. E adesso, pure sperando che il calo dei tassi gli dia una mano, comunque non ha da scialare. Come molte altre amministrazioni locali. Certamente però se i margini di intervento dei comuni italiani per finanziare in proprio le opere pubbliche locali si sono ristretti tragicamente negli ultimi anni non è soltanto per la scelta, talvolta sconsiderata, di affidarsi alla finanza creativa nella speranza di fare un pò di cassa, salvo poi rischiare il dissesto. Il fatto è, sostiene il rapporto sulle opere pubbliche pubblicato da Intesa San Paolo, che "nonostante i proclami di crescente autonomia da assegnare alle amministrazioni decentrate, sono stati posti in essere interventi legislativi tali da ridurre al minimo gli spazi di manovra degli enti territoriali".

Il risultato è che al 31 dicembre dello scorso anno i loro investimenti erano scesi al livello del 2004, anno nel quale avevano toccato un livello del 38% superiore a quello del 2000. Tutto questo mentre il fabbisogno di infrastrutture locali è in crescita fortissima. In Lombardia è superiore dell'11% circa rispetto alla media nazionale, quasi come in Veneto, dove il gap risulta del 13%. Ma nel Lazio il fabbisogno è pari al 142,5% della media nazionale, in Puglia al 168,3% in Campania al 171,1% e in Sicilia arriva al macroscopico dato del 220%. Puglia, Campania, e Sicilia, d'altra parte, sono anche le regioni nelle quali allo stato attuale appare più difficile che altrove mettere in moto finanziamenti. E non a caso sono quelle dove negli ultimi anni gli enti locali sono riusciti a spendere meno soldi. A fronte degli 881 euro procapite investiti in infrastutture in Trentino-Alto Adige nel 2006, le amministrazioni della Campania hanno potuto spendere soltanto 342 euro, contro 209 euro della Puglia e della Sicilia. Tirando le somme, al Sud la spesa per le infrastrutture locali è risultata del 20% inferiore rispetto alla media nazionale.
"Ad aggravare la posizione finanziaria dei Comuni con riferimento alla spesa per investimenti", è scritto nel rapporto curato da Laura Campanini e Fabrizio Guelpa di Intesa San Paolo e da Ref (Ricerche per l'economia e la finanza), "concorre in modo grave il disposto, introdotto convulsamente in fase di conversione" del decreto di luglio sulla manovra economica, "che inibisce l'uso dei proventi da dismissione per il finanziamento della spesa per investimenti". In sostanza, mentre l'articolo 58 di quel provvedimento quasi impone agli enti locali la dismissione del patrimonio non funzionale all'attività, una norma successiva impedirebbe di investire il ricavato. Se questo divieto non venisse rimosso, argomenta il documento, potrebbe venire meno "una qouta pari al 38% della spesa per opere pubbliche degli enti locali". Lo studio considera tuttavia "non meno compromettenti per il finanziamento degli investimenti" le norme che "hanno ridotto l'autonomia tributaria dei Comuni e, di conseguenza, la loro capacità di prendere a prestito".
Giro di vite che ha a che fare con un altro vincolo previsto dal decreto di luglio. Si tratta del divieto imposto ai Comuni di aumentare i propri debiti oltre una determinata soglia. Ipotizzando che questo limite venga fatto coincidere con l'attuale media nazionale, il rapporto giunge alla conclusione che "ai Comuni del Centro-Nord verrà inibito l'uso del debito nei prossimi anni, mentre quelli del Mezzogiorno conservano qualche spazio di manovra".
In questo caso si produrrebbe la curiosa situazione per cui i Comuni del Piemonte, della Liguria e del Lazio si troverebbero a essere più in difficoltà rispetto agli enti locali della Sicilia, della Sardegna e del Molise.

Sergio Rizzo

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