lunedì 23 febbraio 2009

A piccoli passi verso l'inciviltà

di GAD LERNER

UN governo estremista e irresponsabile introduce d'urgenza nel nostro ordinamento le ronde dei cittadini, nonostante le perplessità manifestate dalle stesse forze di polizia, accampando la più ipocrita delle motivazioni: lo facciamo per contenere la furia del popolo. Spacciano le ronde come freno alla "giustizia fai-da-te", cioè alle ormai frequenti aggressioni di malcapitati colpevoli di essere stranieri o senza fissa dimora. Ma tale premura suona come una cinica beffa: la violenza, si sa, è stata fomentata anche dai messaggi xenofobi di sindaci e ministri. Il decreto governativo giunge come una benedizione delle camicie verdi padane e delle squadracce organizzate dalla destra romana. Propone agli italiani di militarizzarsi nell'ambito di un "Piano straordinario di controllo del territorio" fondato sul concetto di "sicurezza partecipata". I benpensanti minimizzeranno, come già hanno fatto con le "classi ponte" per i bambini stranieri, i cancelli ai campi rom, l'incoraggiamento a denunciare i pazienti ospedalieri sprovvisti di documenti regolari. Cosa volete che sia? Norme analoghe sono in vigore altrove, si obietta. Mica vorremo passare per amici degli stupratori? Così, un passo dopo l'altro, in marcia dietro allo stendardo popolare della castrazione chimica, cresce l'assuefazione all'inciviltà. La promessa del grande repulisti darà luogo a sempre nuove misure che lo stesso Berlusconi fino a ieri dichiarava inammissibili. Il presidente del Consiglio era dubbioso anche sulle ronde, ma si è lasciato trascinare dai leghisti per istinto: forza e marketing non sono forse le materie prime del suo potere suggestivo? Poco importa se ciò lo pone in (momentanea) rotta di collisione con il Vaticano, che denuncia "l'abdicazione dallo stato di diritto". A lui la Chiesa interessa come potere, non come Vangelo: si adeguerà. Quanto al distinguo del presidente Napolitano, gli viene naturale calpestarlo: come prevede la forzatura berlusconiana della costituzione materiale del Paese.

Il capo del governo concede che gli stupri sono in calo del 10% nella penisola. Ma più della statistica vale per lui il "grande clamore suscitato da recenti episodi". Per la verità nel novembre 2007, dopo l'omicidio con stupro della signora Reggiani a Tor di Quinto, fu posseduto dal medesimo impazzimento mediatico anche il centrosinistra, guidato all'epoca dal sindaco di Roma. Mal gliene incolse. La destra populista invece trova nell'insicurezza il suo principale fattore di radicamento territoriale. Prospetta la riconquista dell'ambito esterno al domicilio privato, vissuto da tanti come ostile. Le parole "ronda", "squadra", "pattuglia", "perlustrazione" - un incubo negli anni della violenza politica - vengono adesso sdoganate come potere calato dall'alto per guidare il popolo. Nuove milizie, nelle quali i volontari dei partiti di governo e gli uomini dello Stato si fondono e si confondono. Come avveniva nel regime fascista. Lunedì scorso all'"Infedele" una giornalista rumena ha provocato un senatore leghista: "Noi le abbiamo conosciute già, le vostre ronde. Si chiamavano "Securitate"". Lungi dall'offendersi per tale paragone con le squadracce comuniste di Ceausescu, il senatore leghista le ha risposto: "All'epoca in Romania c'era molta meno delinquenza". Ora anche il governo minimizza. Le ronde saranno disarmate (a differenza di quanto previsto nella prima versione, bocciata al Senato). Mentre la Lega esulta, gli altri cercano di ridimensionarle a contentino simbolico, poco rilevante nella gestione dell'ordine pubblico. Fatto sta che è sempre l'estremismo a prevalere. Berlusconi si era opposto pubblicamente anche al rincaro della tassa sul permesso di soggiorno. Si sa com'è finita. La Gelmini aveva dichiarato che per i bambini stranieri prevede corsi di lingua pomeridiani anziché classi separate. Ma i leghisti stanno per riscuotere le classi separate. Tutte le peggiori previsioni si stanno avverando. La prossima tappa, c'è da scommetterci, saranno le normative differenziali sull'erogazione dei servizi sociali (agli italiani sì, agli stranieri no, e pazienza se pagano anche loro le tasse); seguirà il distinguo nei sussidi di disoccupazione (c'è la crisi, non possiamo mantenere gli stranieri, e pazienza se hanno versato i contributi). Fantascienza? Ha davvero esagerato "Famiglia Cristiana" denunciando il ritorno al tempo delle leggi razziali? Le ronde dei volontari guidate dagli ex funzionari di polizia annunciano un clima di guerra interna che non si fermerà certo agli stupratori e agli altri delinquenti. Quale che sia la volontà del presidente del Consiglio, cui la situazione sta già sfuggendo di mano.

(21 febbraio 2009)


Segnalato da Gianni Stroppa

domenica 22 febbraio 2009

Considerazioni sul PD: conversazione con Nadia Urbinati

C’è una differenza di fondo tra il Partito democratico Usa e il Pd italiano.
Oggi quello americano è una formidabile macchina organizzativa di elettori, senza smagliature ideologiche e con una cultura laica e libertaria di fondo. In più l’avversione ai repubblicani è radicale. Nel Pd italiano invece convivono posizioni opposte sui diritti civili e sul dialogo politico, che possono farlo implodere».
Conversazione ad ampio raggio quella con Nadia Urbinati, cattedra di «Political Theory» alla Columbia University diNewYork, studiosa di HannahArendt e dell’Individualismo democratico (ultimo suo libro per Donzelli).
Tesi politica di Urbinati: il Pd deve coagularsi nella società civile, darsi un riconoscibile linguaggio di sinistra, fondato sul nesso «diritti/emancipazione».
Altrimenti?
Altrimenti in Italia passerà l’ondata emotiva di destra, che sta sgretolando i fortilizi storici della sinistra. E in virtù di una manipolazione «esistenziale e decisionista», che drammatizza i problemi «per risolverli in chiave autoritaria e potestativa».
Ad esempio, spiega Urbinati, l’attacco alle donne su due fronti: quello quasi quotidiano degli stupri e quello operato dal presidente del Consiglio che parla delle donne nello stesso modo in cui
parla degli immigrati. La retorica della politica della sicurezza è come un double bind, dice: «da un lato si mandano imilitari nelle strade violando la Costituzione, perché non esiste veramente uno stato di emergenza; dall’altro si fomenta il clima di paura non solo perché la paura genera violenza ma anche perché si giustifica l’impossibilità di garantire la sicurezza usando l’argomento dell’ineluttabilità della natura umana. Ci viene detto cioè che l’uomo è cacciatore e violento per sua natura, come se questo fosse una fatalità.E lo stupro è il riconoscimento della bellezza femminile. Politica e linguaggio che sono una vergogna, una iattura per l’Italia».
E non è l’unica vergogna.
Professoressa Urbinati, per «The Economist» quello di Eluana è stato undramma nazionale che ha rivelato la stabile influenza della Chiesa e l’insofferenza del Premier verso le regole del diritto. È stato questo il «film»?
«The Economist ha capito tutto, concordo totalmente. La situazione è grottesca. Sappiamo
benissimo che cos’è lo stato di diritto e ciò che avviene risponde a una logica precisa e a due facce. Da un lato questo pontificato recupera un ruolo teocratico di fondo, insofferente per il rispetto delle sfere autonome di vita, per le scelte del singolo. Dall’altra parte l’esecutivo prevarica la divisione dei poteri in chiave decisionista».
Eppure all’inizio la maggioranza degli italiani era favorevole alla battaglia di Beppino Englaro...
«Sì, ma l’esecutivo rimescola e cavalca l’onda delle emozioni. E il paradosso è che questa
maggioranza politica, dai larghi numeri, invece di unire gli italiani, stimola continue divisioni e lacera le coscienze. È un approccio esistenziale ultimativo. Privo di mediazioni politiche. Come del resto accade sul piano della sicurezza, giocata sul filo della paura. Il risultato non può che essere l’appello all’autorità salvifica, come l’unica in grado di dirimere conflitti insolubili in modo
imperativo».
È una destra che vuole imporre al paese una sorta di bipolarismo etico? Una destra da stato etico?
«Attenti a non nobilitarla troppo con queste definizioni. Non è nemmeno da stato etico.
La verità per ora è più semplice. Berlusconi vuol fare con lo stato quello che ha fatto da imprenditore con le sue aziende. La sua è una scommessa megalomane e narcisistica, per radicare il proprio potere personale e dispotico nelle istituzioni. Forse è la Chiesa cattolica a coltivare l’ambizione di una politica etica, usando l’occasione fornitale da Berlusconi».
Il tutto in un quadro di lacerazioni molteplici, segnato da intolleranze e violenze di branco sul territorio.
Da pendolare tra Usa e Italia, che percezione antropologica ha del paese?
«Prima di arrivarci, vorrei tornare alle politiche della sicurezza, il che è già un inizio di risposta. Anche qui c’è come un approccio imprenditoriale. Lo stato incrementa l’ansia di sicurezza, per
giustificare mezzi speciali, magari simbolici, come l’uso dell’esercito in strada. E per stimolare la richiesta di autorità. Un circolo vizioso. Quanto al paese reale, mi sembra in preda a una doppia sindrome. Dove convivono fatalismo e angoscia. Per un verso c’è un senso di impotenza e rassegnazione. E al contempo,un vissuto incattivito e da ultima spiaggia. Il paese talvolta pare peggiore di Maroni... Vive con diffidenza e preoccupazione gli stranieri, li teme, benché l’Italia sia
un paese di migranti e genti mescolate. E alla fine convive assuefatta con le sue litigiosità
e le sue emergenze. Spesso accollandole ai diversi».
In questo clima però si è cristallizato un blocco emotivo e sociale conservatore che può scalzare del tutto la sinistra dalla società civile. È un rischio reale?
«Altroché! E questo per me è un dramma dai tempi lunghi, almeno partire dal 1994.
Occorrerebbe fare la storia della sinistra dal 1989per capire come quel blocco si è formato,
e perché non lo si è contrastato con efficacia. La sinistra nel suo insieme - parlamentare e no - ha perso il suo linguaggio specifico, e ha mancato sul piano della leadership. In un sistema rappresentativo questo è un punto essenziale. Senza leader rapppresentativi nei quali identificarsi sul piano emotivo e ideale, c’è il vuoto».
La crisi di leadership non nasce anche dall’aver abbandonato interessi, radicamento e memorie condivise legate all’emancipazione dei subalterni?
«Certo, è innegabile. Almeno da quando la sinistra ha smesso di coniugare governo ed
emancipazione sociale. Dopo aver aperto al privatismo nella scuola e al precariato, da Prodi a D’Alema! Sul piano ideale chiusi i libri marxisti, non se ne sono aperti degli altri, e non c’è più stata una seria riflessione teorica. Per liberalismo si è inteso un semplice mercato regolato, e la meritocrazia ha avuto la meglio sull’eguaglianza delle opportunità.
Quanto alla “cittadinanza”, la si è declinata in versione legalistica e astratta, senza politiche e progetti sociali. Laddove al contrario, essa è strumento di emancipazione universale, nonché potere democratico di controllo, oltre che terreno inclusivo dell’ospitalità»
Mentre il Pd non sa dove sedersi a Strasburgo, l’americano«Newsweek»titola in copertina: «siamo tutti socialisti». Che c’è di vero?
«È il grande dibattito Usa del momento. Al centro ci sono il ruolo dello stato in economia, i piani di salvataggio per imporre regole alle banche. E gli indirizzi produttivi. Socialismo equivale a spauracchio, ma allude a una necessità di governo economico. Non si può rinunciare aun ruolo forte del pubblico per rilanciare il meccanismo economico. Ecco la verità che si è fatta strada».
Qual è il nocciolo sociale del consenso trainante di Obama, nel mondo produttivo e dei lavori?
«Elettorato ampio, fatto di “professionals” - lavoratori delle professioni libere - sottoclassi, emarginati e precari. E lavoratori dell’industria, comunemente reputati in diminuzione e nondimeno oggetto dell’attenzione diObama, deciso ad aiutare l’industria automobilistica.
La sensazione è quella di una situazione gravissima, dove il mercato si è inceppato e si rivelato incapace di funzionare. Ecco perché lo stato deve intervenire. E l’augurio è che intervenga non solo per far ripartire l’economia, ma per distribuire opportunità e ricchezza. Come ha promesso
Obama».


Chi è e cosa sta facendo Nadia Urbinati

Nadia Urbinati insegna Teoria Politica nel Dipartimento di Scienza politica della Columbia University di New York. Laureata all’Università di Bologna, tra i suoi maestri ci sono stati Norberto Bobbio ed Eugenio Garin.
Si occupa di pensiero politico moderno e contemporaneo e di teoria democratica e liberalismo.
Sta lavorando a un progetto di studio sull’ «antipolitica» moderna, in una chiave critica
contro il populismo di destra e contro l’approccio «cognitivista»di Habermas. Una prospettiva
«emotiva»quella di Urbinati, ispirata a Hannah Arendt. Tra i suoi numerosi lavori, oltre a
«L’individualismo democratico», il recente volume sulla «Democrazia rappresentativa»,
che sta per uscire in Italia sempre per Donzelli.


Bruno Gravagnuolo, L'Unità - lunedì 16 Febbraio 2009


Segnalato da Sara Bacchiega - coord. circolo PD di Fratta Polesine

mercoledì 18 febbraio 2009

L'ira dei militanti: andatevene tutti. Tutto un vertice finisce sotto processo


Un gruppo dirigente segnato da tempo per il qualeBerlusconi continua ad essere un oggetto misterioso
di CURZIO MALTESE


ROMA - "Con questo gruppo dirigente non vinceremo mai". L'invettiva di Nanni Moretti a Piazza Navona era la più citata nel drappello di curiosi e militanti davanti alla sede del Partito Democratico, in attesa dell'ultimo atto dell'era Veltroni. Sfilava un pezzo di nomenklatura. Fassino e Bersani, Letta e Bindi, Finocchiaro e Soro. Erano entrati la mattina da congiurati, gioviali nonostante tutto, pronti a infilare qualche altra banderillas nel corpo del capo. Sono usciti alle due, quando s'era ormai capito che "Walter faceva sul serio", mogi e silenziosi, scansando telecamere e taccuini, spiazzati, perplessi, scongiurati. A parti invertite, Walter Veltroni è stato il solo a uscire con passo leggero, sorridente, sollevato. L'immagine di un uomo tornato libero. E dire che li aveva avvisati. "Guardate che non rimarrò a farmi infilzare. Non v'illudete, la mia fine sarà quella dell'intero gruppo dirigente". Sembravano parole. Ma il fatto, le dimissioni, cambia il senso della profezia. Fa apparire l'estinzione vicina, quasi inevitabile. "E' la strategia dei lemmings" commenta lo scrittore e senatore Pd Gianrico Carofiglio, i roditori che per combattere i tempi di carestia si gettano in massa dai dirupi. Alle quattro le dimissioni sono irrevocabili e il pezzo di nomenclatura presente s'attacca al telefono per consultarsi con gli assenti: D'Alema, Rutelli, Fioroni, Marini. "E adesso, che facciamo?". L'evento tanto atteso, evocato, programmato, le dimissioni di Veltroni, li annienta di colpo. Era tutto scritto, la batosta elettorale di giugno, la nomina di Bersani alla successione, in attesa magari di farsi venire qualche altra idea, fidando nel logoramento della maggioranza alle prese con la crisi. Un'altra strategia fallita, rovesciata in corsa al dirupo. Per giunta, fra gli applausi. Sui siti del partito, dei giornali, delle televisioni, piovono migliaia di messaggi di elettori che ripetono, in forme più o meno colorite, la stessa richiesta: "Ora andatevene tutti". E' lo stesso messaggio che da mesi arriva da ogni elezioni, dal Friuli alla Sardegna. Perfino dalle primarie di Firenze, l'epicentro in tutti questi anni delle lotte fra guelfi veltroniani e ghibellini dalemiani, o viceversa se volete. Dove stravince al primo turno il candidato Matteo Renzi, 34 anni, con una campagna impostata su un attacco al giorno a Veltroni e uno a D'Alema, per mesi. I lemmings democratici sono rimasti a beccarsi fino all'orlo del precipizio, e poi giù tutti insieme. E' un gruppo dirigente segnato da tempo, dalla profezia di Piazza Navona. Sopravvissuto a lungo grazie all'odiato Romano Prodi e poi, per poco, grazie all'odiato Walter Veltroni. Specializzato nel segare il ramo sul quale si poggia. Un gruppo dirigente per il quale Silvio Berlusconi, a distanza di vent'anni, continua a essere un oggetto misterioso, impossibile da contrastare. "Per due mesi è stato lasciato libero di scorrazzare a caccia di voti in Sardegna, senza che il partito mettesse in campo una risposta adeguata", hanno acutamente osservato i critici di Veltroni anche nella riunione di ieri. Sempre dopo, però, e col tono dei commentatori esterni. "Ora si apre l'ennesimo dibattito. Inutile come i precedenti, finché i dirigenti non capiranno che una stagione, la loro, è finita. Bisogna andare, anzi correre a un ricambio generazionale". Ha ragione Francesco Boccia, classe 1968, economista e deputato Pd. Ma con chi? Boccia è uno dei pochi scampati alla silenziosa epurazione di giovani di talento, di amministratori popolari, insomma di potenziali successori, che in questi anni ha stroncato il futuro del centrosinistra, per concludersi in bellezza con il siluramento di Riccardo Illy e Renato Soru. "Spazzati via da Berlusconi ma anche dal Pd", come ammette lui stesso. Alla linea di Boccia, l'avvento di una nuova generazione per generosa volontà degli attuali dirigenti, si contrappone l'esempio di Renzi. La sfida aperta dei giovani ai vecchi, l'uccisione simbolica dei padri. Qualcuno che si presenti alle primarie, l'unica soluzione ormai possibile, con l'accento del papa straniero, da fuori e contro la nomenklatura. Uno in grado di parlare una nuova lingua, capace di farsi ascoltare perfino da quel gruppo di giovani studentesse che ieri per qualche minuto ha sostato davanti alla sede del dramma, attratta dalle luci delle telecamere. Finché non hanno chiesto: "Ma che c'è là dentro?". E alla risposta ("La sede del Pd, il vertice con Veltroni") hanno commentato: "Ah, credevamo uno famoso". E sono sparite in un attimo.


(La Repubblica 18 febbraio 2009)


Segnalato da Gianni Stroppa

E' "morto" il Leader, non il Partito.


Le dimissioni di Veltroni chiudono un periodo travagliato per la sinistra italiana e in particolare per il PD. Un periodo iniziato sotto i migliori auspici, ma che ha visto una chiusura quanto dolorosa quanto improvvisa. Walter lascia un partito profondamente smarrito che deve ritrovare dei valori (che appaiono dai contorni molto sfocati), una strada politica nuova che possa aiutarlo a risorgere.


Intendiamoci: le sue dimissioni sono il gesto più responsabile che abbiamo visto nella politica italiana recente, in quanto egli non ha tirato dritto di fronte alla sconfitta di Soru, ma ha preso atto degli errori da lui commessi (una leadership debole tra i problemi principali ma anche il fatto di non aver "imposto" i voti delle primarie); bisogna però sottolineare come le dimissioni raccolgono anche gli errori di altri membri della "nomenklatura democratica". I continui dissidi verso la linea del PD non hanno aiutato, ma hanno aumentato le divisioni di fronte ad un centro-destra all'apparenza diviso ma unito sotto l' "imperialismo berlusconiano". Ma allora che succede? Per ritrovare la rotta, anche noi abbiamo bisogno di un Berlusconi? Certamente no, ma serve un leader con più autorità che rispetti le idee di tutti, ma guidi il partito in modo fermo e deciso verso la rinascita.


Il PD deve essere "costruito" non "ri-costruito", è rimasto legato ad un'idea, ad un progetto, ad un simbolo, a quelle due lettere tricolori, mostrando una struttura sostanzialmente fragile a livello centrale ma che trova uno straordinario esempio di vita nella rete dei Circoli locali, dai quali bisogna e si deve partire.


Ci si deve dimenticare poi dell'idea che "morto il Papa, morto il Vaticano": certamente l'immagine del PD è stata legata a quella voglia di riformismo della sinistra portata avanti da Veltroni, ma finito il suo mandato, il Partito deve continuare a vivere e a lottare, perchè non si può pensare né ad una scissione né a nessun'altra forma di auto-distruzione, il prezzo da pagare sarebbe troppo alto. Il PD deve fin da ora tracciare una rotta che, in attesa del Congresso, traghetti il partito verso una risalita (in vista anche delle prossime scadenze elettorali), cercando finalmente di puntare su un fortissimo rinnovamento della classe dirigente, per portare avanti le "facce nuove".


Comuqnue sia, caro Walter, a te va un ringraziamento sentito per quanto ci hai saputo regalare in questi mesi, con l'augurio che le tue dimissioni possano davvero segnare l'inizio dell'era del cambaimento, l'inzio di una nuova stagione democratica.

giovedì 12 febbraio 2009

Almeno il buon senso...

Ho visto in questi giorni in giro per badia della pubblicità di un noto locale dove si svolgono spettacoli hard-core, l'immagine della locandina pubblicitaria è sicuramente di impatto visivo, e qualche autobilista potrebbe distrarsi nella guida, e fin qui, se non succede nessun incidente, niente da dire, trovo invece deplorevole che queste immagini vengano affisse in plancie vicino alle scuole elementari!! (vedere foto).
Va bene che oramai in tv di "tette e culi" se ne vedono a tutte le ore, ma credo che ci sia un limite alla decenza e per certe immagini non bastano le "stelline"che si applicavano una volta, il buon senso e il pudore, sempre che ce ne sia ancora, avrebbero dovuto fare in modo che almeno in quei luoghi dove tutte le mattina vi passano dei bambini non fossero esposte certe immagini.
Credo che la polizia municipale dovrebbe intervenire.

Stefano Cestaro

martedì 10 febbraio 2009

Mai più


Spero che non succeda mai più. Che non succeda mai più che nel nostro Paese una persona debba morire di fame e di sete. Come molti - in questa vicenda in cui il dolore dovrebbe zittire speculazioni tanto urlate quanto stonate, strumentalizzazioni politiche, deliranti attacchi alla Costituzione e sciaccallaggi vari - personalmente mi sento frastornato e smarrito, ma penso anche che sia necessario riprendere il filo della ragione.
Iniziando dal respingere tutte le voci che interpretano la morte di Eluana per eutanasia (perché di questo si tratta, anche se autorizzata da un tribunale, pur in mancanza di una legge) come il venir meno del valore della vita come ‘bene indisponibile’.

C’è chi in queste ore ha applaudito all’annuncio della morte, chi ha sottolineato che questa morte segnerebbe un cambio di civiltà in grado di mutare una volta per tutte il valore della vita in sé.
E che a questo si sostituirebbe un nuovo valore, quello della qualità della vita.
Sono espressioni inaccettabili, frutto di un ‘ trasversale partito dell’eutanasia’ che va contrastato con le armi della ragione, della cultura, dell’educazione e dei valori.

Pur nella confusione di questi momenti, è necessario affermare l’amore per la vita e saper distinguere fra quanti si battono per la sua tutela e quanti, invece, cercano la scorciatoia della morte per fame e per sete per affermare il principio illuministico dell’autodeterminazione assoluta.
Spero che a questo punto cali finalmente il silenzio su una dolorosa vicenda umana che ha toccato innanzitutto Eluana e la famiglia Englaro in un calvario durato 17 lunghi anni.
Si abbassino i riflettori, si chiudano i microfoni, si eviti la tentazione di trasformare “ il caso Eluana” in una sorta di icona “ testimonial” del partito dell’eutanasia.

E il Parlamento si metta a lavorare con coscienza, nel confronto leale delle diverse ideologie, non a una norma sull’eutanasia, ma ad una legge sul fine vita, che sia rispettosa innanzitutto della persona umana, anche nella sua fase terminale.
Perché è pur sempre della vita di una persona che si sta parlando.


Alberto Ferrari

Quelle minoranze senza diritti


«è un lungo applauso, accompagnato da uno sventolio di fazzoletti verdi, quello che accoglie il voto finale al provvedimento sulla sicurezza», riferisce la cronaca dal Senato del quotidiano La Padania. Gli spavaldi portavoce leghisti, con quel fazzoletto-distintivo bene in vista nel taschino, lanciano attraverso i telegiornali la buona novella della padronanza recuperata sul "nostro" territorio. Basta col lassismo. Mantenuta la promessa elettorale. E' finita la cuccagna. Ma quale cuccagna? Troviamo la risposta sempre sul giornale padano, nel titolone sarcastico del giorno prima. "Bossi: ormai i clandestini siamo noi. Al Pronto Soccorso noi diamo le generalità, loro sono esenti". Falso, ma funziona. E' la narrazione di una maggioranza di cittadini perbene oppressa da una minoranza straniera pretenziosa di vivere a spese nostre, esente da vincoli. La fotografia di un' Italia a rovescio, dove l' immigrato la fa da padrone e assoggetta il nativo. Con sapienza propagandistica la Lega esibisce come innocenti i suoi emendamenti. Ma come, di ciascuno si può dire che è vigente nella legislazione di un altro Paese europeo. In effetti, cogliendo fior da fiore, la nuova normativa introduce d' un colpo tutte le regole più severe che altrove, ma non in Italia, vengono abbinate a percorsi certi e codificati di regolarizzazione. Per esempio viene resa più onerosa la tassa sul permesso di soggiorno (oggi di 72 euro) senza ovviare alle lungaggini per cui, quasi sempre, esso viene rilasciato quando ne è ormai prossima la scadenza. Si complica la procedura con test e punteggi, si disincentivano i ricongiungimenti familiari, s' introduce il reato di clandestinità, senza fornire in cambio un trattamento "europeo", cioè dignitoso, agli aventi diritto. Al contrario, non solo i medici ma tutti i cittadini che lo vogliano sono sollecitati a una partecipazione volontaria - con le ronde - nel setaccio territoriale degli irregolari. Poco importa se abbiano varcato la frontiera con un visto poi scaduto, o se siano vittime della nostra inadempienza burocratica: tutti clandestini. E guai ai senza fissa dimora, agli abitanti delle baraccopoli, ai minori emarginati, tutte categorie minacciose da contenere mediante pubblica schedatura. La débacle della politica democratica, consumatasi nella resa alla paura di un' invasione criminale, ha già da tempo ridotto le scelte sull' immigrazione a false categorie primitive: noi e loro; buoni (sti) e cattivi. Giungono così tardive e inefficaci le proteste del Pd, le resipiscenze di settori moderati del Pdl; oggi travolti insieme dalla vittoriosa cavalcata leghista perché a suo tempo rinunciarono alla necessaria contrapposizione di valori civili e religiosi. Con la solita, vile motivazione confidata sottovoce: il popolo non ci capirebbe, la sicurezza è un bisogno dei più deboli. Il progressivo cedimento culturale alla xenofobia, lo slittamento semantico verso il linguaggio della pura forza, produce ora una novità imprevista dagli stessi leader leghisti. Perché è vero che in tutti i governi, di destra e di sinistra, al ministro dell' Interno tocca sempre il ruolo del duro, del "cattivo". Ma solo nell' Italia del 2009 un ministro come Maroni si ritrova ad assumere la funzione politica di capo dei cattivi. Cioè di un movimento d' opinione che, facendo leva su diffusi istinti popolari, teorizza la disuguaglianza dei diritti come difesa della nazione. Ormai chi fa politica si ritrova mutilato perfino nel vocabolario. Davanti a una telecamera sarebbe controproducente esprimere disagio per la dimensione umana degli sbarchi a Lampedusa, l' eccidio quotidiano, la tragedia di una nuova frontiera epocale. Quelli lì non ce li possiamo permettere, punto e basta. Paghiamo la Libia purché li rinchiuda in lager lontani dalla nostra vista. I difensori della vita recano inutili pagnotte e bottiglie d' acqua al capezzale di Eluana Englaro, non tra i naufraghi africani, essendo anche la bontà ridotta a ideologia. E' questo formidabile capovolgimento della realtà che consente di presentare il decreto sicurezza come la fine di una inesistente cuccagna: la bieca favola di un' Italia permissiva, paese del bengodi per gli stranieri. Dunque non si illudano, gli immigrati residenti sul nostro territorio. Come insegnano perfino gli operai inglesi, nella crisi bisognerà riservare il sostegno pubblico ai nativi. E pazienza se anche "loro" pagano le tasse: sono paria destinati a un' eterna condizione provvisoria, subalterna. Costretto dai suoi stessi, insperati successi a premere sull' acceleratore della separazione fra aventi e non aventi diritti, ben presto il ministro dei cattivi sarà chiamato a spiegare come intenda regolarsi con i circa 800 mila cittadini stranieri privi di documento regolare che risiedono sul nostro territorio. Persone che vivono nelle nostre case, lavorano al nostro servizio, vengono ospitate nelle strutture sociali, sono curate dal servizio sanitario, bambini che frequentano la scuola primaria. Nell' ottobre scorso Maroni ha reso noto un incremento del 28,1% delle espulsioni (percentuale su cui fare la tara, visto che il 2007 segnò l' ingresso di Romania e Bulgaria nell' Ue). Con ciò, la cifra è salita a 6553 espatriati. Stiamo parlando di circa 2 espulsi ogni 100 irregolari. Vogliamo ipotizzare che il ministro dei cattivi riesca a raddoppiare, triplicare tale cifra nei prossimi anni? Difficile, ma ammettiamo che sia possibile. Cosa ne faremo del restante 90% e passa di irregolari che continueranno a vivere in Italia? Tutti gli altri paesi mirano a regolarizzarli, per ovvi motivi di civiltà, convenienza economica, ordine pubblico. E noi? Temo che queste domande resteranno a lungo senza risposta. Ma nel frattempo è facile intuire quale possa essere la percezione di quattro milioni di stranieri residenti in Italia, posti di fronte a un decreto sicurezza architettato come percorso minato, a rendere sempre più complicata la loro integrazione. Una destra sottomessa alla Lega sta facendo di tutto per farli sentire ospiti indesiderati, cittadini di serie B destinati al lavoro ma esclusi da un futuro di pari opportunità. Subiscono la beffa di chi li addita come tenutari di privilegi. Le istituzioni non sanzionano i mass media che diffondono il pregiudizio e l' ostilità nei loro confronti, anche perché spesso sono di proprietà del capo del governo. Il clima è propizio a sempre nuovi soprusi nei rapporti di lavoro, nell' erogazione di servizi, nell' affitto di case. Ci troviamo così a un bivio. O i cittadini stranieri riusciranno a dare vita a una tutela democratica dei loro diritti - nella quasi totale latitanza di una politica timorosa di rappresentarli e coinvolgerli - oppure chineranno il capo lasciando i loro figli preda di leadership radicali e integraliste. L' Italia non ha niente da guadagnare dallo sventolio dei fazzoletti verdi sulla faccia di milioni di persone con cui è destinata a convivere. Non ci troviamo nella condizione di chi ha ottemperato ai suoi impegni e perciò attende che il contraente si adegui. Con il combustibile delle appartenenze incivili, ronda contro branco, la Lega ha già incenerito la nozione di cittadinanza universale, ma ora si appresta a bruciare l' idea che le minoranze abbiano dei diritti. -

GAD LERNER ( La Repubblica 08/02/2009)
Segnalato da Umberto Montin

sabato 7 febbraio 2009

Senso di responsabilità, questo sconosciuto…


Dal consiglio comunale del 22 Dicembre 2008, quello ormai consegnato alle cronache come il consiglio “del contro-ribaltone” è passato un mese e mezzo.
Quel giorno ero lì, in aula tra il pubblico, a constatare l’effettiva disgregazione di quella maggioranza strampalata ed incerottata uscita dai già imbarazzanti avvenimenti del febbraio 2007.
Di fatto, con le dichiarazioni di Boldrin e Fogagnolo e la comparsa di Tomì fra i banchi dell’opposizione, Meneghin vedeva crollare la raffazzonata coalizione che l’aveva fino a quella sera sostenuto, ritrovandosi ufficiosamente in minoranza.
Tanto da ventilare fin da subito delle amare (ed amareggiate) dimissioni.

Nelle giornate successive ( ma, a dire il vero, già da quella sera stessa) si sono succedute riunioni, incontri e faccia a faccia più o meno segreti fra capigruppo ed esponenti di spicco (anche a livello provinciale) delle varie forze politiche componenti la ex-maggioranza in un clima, a quanto si apprende dalla stampa, piuttosto teso.

Scopo di tutto questo andirivieni: ricomporre i cocci e trascinarsi fino alla fine del mandato in primavera.

E fin qui, anche se a fatica, il discorso può risultare accettabile. Non si può vietare al sindaco di cercare una mediazione per ricostruire la sbilenca struttura che lo ha sorretto fino ad ora. La stessa opposizione di FI (marangoniani) aveva avanzato questa richiesta: o il sindaco si presenta con una maggioranza in consiglio oppure deve dimettersi.
Certo è che, dal punto di vista etico e morale, subire un ribaltone prima ed un contro ribaltone poi, dovrebbe essere uno schiaffo già abbastanza violento da indurre Meneghin e tutta la giunta a fare un passo indietro e rassegnare le dimissioni seduta stante.

Inoltre le dichiarazioni di Boldrin , confermate dalle recenti dimissioni di Mauro Usini da presidente del consiglio, e le dure parole espresse da Silvia Veronese, a pochi giorni dalle sue stesse dimissioni da assessore alla cultura (Gazzettino 06/02/2009), rimbombano nell’aria come tuoni e sono un pesante atto d’accusa a cui il sindaco e la sua “giunta di minoranza” hanno però reagito facendo “spallucce”. Eppure le accuse degli ex-alleati sono di una gravità estrema e non arrivano dall’ “opposizione”, bensì da chi fino al dicembre scorso partecipava alle decisioni della maggioranza.

Il silenzio dell’amministrazione è inaccettabile e da adito a dubbi. Dubbi che le affermazioni di Boldrin e Veronese siano semplicemente veritiere (e molti fatti avallano questa tesi…)
Ma tutto questo sembra non importare a Meneghin ed ai suoi fedeli, occupati ad un febbrile lavoro di ricucitura pur di rimanere in sella fino alla scadenza naturale del mandato

La cosa che risulta oltremodo insopportabile, in ogni caso, non è di per sé il fatto di voler a tutti i costi rattoppare la coperta.
Inaccettabile è la motivazione ed il fine per il quale si vuole arrivare a questa contorsionistica conclusione.
Motivazione che traspare con chiarezza dalle affermazioni consegnate alla stampa in questi giorni dall’ On. Bellotti, presidente provinciale di AN (Il Resto del Carlino 12/01/2009) e dalle indiscrezioni emerse dopo l’incontro fra l’assessore di FI Renzo Marangon e lo stesso Bellotti (Il Resto del Carlino 03/02/2009) i veri registi occulti dell’operazione “taglia e cuci”.

Dalle dichiarazioni si evince di come a Badia si voglia tenere a tutti i costi in piedi la baracca non per un vago senso di responsabilità o di machiavellica ragion di stato (il senso di responsabilità di questa amministrazione è morto nel ribaltone del febbraio 2007), bensì per evitare una figuraccia devastante al centro-destra ed al nascente Pdl.

Pur di evitare l’onta del commissariamento, che di per se sarebbe un toccasana per il comune di Badia e le casse comunali (vista la manifesta incompetenza di taluni assessori; perlomeno la normale amministrazione verrebbe ridotta al minimo e verrebbero congelate le iniziative di spesa ulteriori) si decide quindi di venir meno al principio secondo il quale prima viene l’interesse della cittadinanza e poi quello personale e di partito.

Una lugubre messinscena per salvare la faccia in vista delle prossime elezioni amministrative, una farsa reiterata che risulta ancora una volta irresponsabile e deleteria per tutta la comunità badiese gettata in faccia ai cittadini con svergognata sfrontatezza. Che si augura arrivi il Commissario Prefettizio, seppur in ritardo di due anni.

Stiamo perciò aspettando se gli strali di Marangon quando chiamava la giunta badiese, nei giorni seguenti il ribaltone di febbraio, “i furbetti del comunello” lanciando minacce ed anatemi: “quello che hanno fatto scatenerà tutte le ripercussioni possibili…” (gazzettino 09/02/2007 e RdC 21/02/2007) avranno effettiva efficacia .

Anche perché risulterebbe incomprensibile alla gente comune la riproposizione di un ennesimo "salvifico" rimpasto da parte di un gruppo consiliare che per molti consigli comunali ha “fustigato” il sindaco .

Non si capisce perciò come sia stato e sarà possibile ricercare l’aiuto dei consiglieri “ripudiati” e messi all’opposizione

Le domande sorgono spontanee : tutto si spiega con il solo attaccamento alla comoda poltrona? Come si può calpestare il bene della comunità per fini esclusivamente elettoralistici, piuttosto che assumersi le proprie responsabilità e farsi da parte riconoscendo i propri errori e la propria inadeguatezza?


Le risposte mi sembrano chiare: a due anni dal ribaltone, ad un mese e mezzo dal contro-ribaltone resto incredulo nel vedere sempre gli stessi attori abbarbicati alle sedie non per coerenza, non per senso di responsabilità verso la comunità, nemmeno per orgoglio, ma solo per mero calcolo politico e personale gettando ancora una volta tutto il peso dei propri interessi su una comunità, quella di Badia Polesine, che merita certamente di essere rappresentata da uomini migliori.


Sarzi Davide (membro del Coordinamento del Circolo PD di Badia Polesine)

lunedì 2 febbraio 2009

Il nemico straniero in fabbrica


La protesta esplosa in Gran Bretagna contro l' arrivo di 300 lavoratori italiani impiegati nella costruzione di una raffineria è inquietante ma, al tempo stesso, istruttiva. Serve, infatti, a mettere in luce - e a nudo - alcuni effetti della trasformazione globale e sociale, in tempi di crisi. A partire da un aspetto che si tende a svalutare o a leggere con le lenti dell' ideologia.Ogni mutamento demografico e sociale improvviso nel mondo locale e nella vita quotidiana suscita reazioni. Si tratti di flussi di emigranti di ingenti dimensioni, spinti dalla miseria e dalla paura; oppure di gruppi di lavoratori di entità limitata e con compiti definiti, non importa: appaiono, comunque, stranieri. Entrano "a casa nostra". Interferiscono con le nostre abitudini, le nostre regole, i nostri equilibri. Incrinano le nostre certezze. Questa considerazione non vale solo per l' Italia, che ha conosciuto solo da pochi anni il fenomeno dell' immigrazione, dopo essere stata per un secolo paese di grandi emigrazioni. Come mostrano le indagini internazionali, l' immigrazione - ogni immigrazione, anche temporanea, anche di ridotte proporzioni - agisce come una sorta di "diagnostica" del sentimento sociale e del modello istituzionale. Dovunque. Ne mette, cioè, in evidenza i limiti, le tensioni. Per cui, in Gran Bretagna, paese multietnico e multiculturale di tradizione lunga e consolidata, l' immigrazione solleva un allarme sociale molto limitato dal punto di vista dell' identità e della sicurezza. Mentre genera ansia per gli effetti sul lavoro e sulla disoccupazione. Basta osservare i dati dell' indagine europea, condotta (da un decennio) da Demos per Intesasanpaolo. Quasi una persona su due, in GB, considera gli immigrati "una minaccia per l' occupazione". Il dato più elevato fra i paesi occidentali della Ue; superato largamente da quelli dell' Europa centro-orientale: Cekia, Polonia, Ungheria (ma non Romania). Dove il lavoro "manuale" è vissuto come risorsa scarsa e a rischio. La protesta dei lavoratori inglesi (nel Nord, l' area economicamente più debole del paese) non deve, quindi, sorprendere. Ma allarmarci sì. Perché dimostra come la crisi stia drammatizzando la paura. Al punto da trasformare 300 lavoratori italiani in un contingente di "nemici". Peraltro, in Italia il colore della paura sollevato dagli immigrati, fino a ieri, è apparso diverso. Segnato dall' insicurezza. Ancora un anno fa, il 50% degli italiani ritenevano l' immigrazione un problema per l' ordine pubblico. Una fonte di preoccupazione per la sicurezza personale e domestica. Soprattutto nelle regioni del Nord e nel Nordest. Dove, invece, gli immigrati non hanno mai generato particolari timori per l' occupazione. D' altra parte, si tratta di aree ad altissimo sviluppo, con tassi di disoccupazione molto bassi. La struttura produttiva, imperniata su piccole e piccolissime imprese manifatturiere, si è allargata, negli ultimi anni, solo grazie al lavoro degli immigrati, occupati nelle mansioni più faticose e meno remunerate. Progressivamente abbandonate dagli italiani e soprattutto dai giovani. Così la presenza degli stranieri è stata accolta come una "necessità" per lo sviluppo, ma, al tempo stesso, come un "problema" di sicurezza. Gli stranieri: utili, anzi utensili. Da restituire ai proprietari - i paesi d' origine - dopo l' uso. Molto presto, possibilmente. Fino a ieri, però. Perché da qualche tempo il clima d' opinione è cambiato anche in Italia. Anche nel Nord. Anche nel Nordest. L' abbiamo già segnalato altre volte, nei mesi scorsi. In poco tempo la quota di italiani che considera gli immigrati una minaccia per l' ordine pubblico e per la sicurezza dei cittadini è caduta: dal 53% al 35% (Demos-Unipolis, novembre 2008). Una componente ampia, ma molto più ridotta rispetto all' anno precedente. A causa della fine della guerra elettorale, amplificata dai media. Visto che lo spazio attribuito alla criminalità comune e alle illegalità commesse dagli immigrati si è ridotto notevolmente, nell' informazione tivù (come ha messo in luce un' indagine dell' Osservatorio di Pavia). Tuttavia, l' allentarsi della leva politica e mediatica non è l' unica spiegazione di questo cambiamento d' umore. Molto ha pesato, al proposito, la crisi economica e finanziaria internazionale, che ha colpito anche l' Italia. Tanto che 1 persona su 10 oggi (dicembre 2008) sostiene che qualcuno, nella sua famiglia, ha perduto il lavoro oppure è in cassa integrazione. E oltre metà degli italiani afferma che la crisi in atto ha peggiorato la sua condizione e il suo stato d' animo. La crisi. Ha cambiato in fretta gli italiani. Ne ha modificato comportamenti, atteggiamenti, stili di vita. I sentimenti. Così, rispetto a ieri, gli immigrati sono percepiti meno come una minaccia alla persona, alla proprietà, al domicilio. E assai di più: al lavoro, all' occupazione. Si tratta di una tendenza che comincia a divenire evidente nei sondaggi. Anche se non appare ancora lacerante. Lo potrebbe divenire se le - diffuse e crescenti - difficoltà che attraversano il sistema industriale nel Nord si drammatizzassero ulteriormente. Se, d' altra parte, gli immigrati "pretendessero" di entrare nel mercato del lavoro più qualificato, senza rassegnarsi alle mansioni più povere e marginali. D' altra parte, qualche sofferenza, al proposito, è rivelata dalla proposta leghista di una imporre una fideiussione agli immigrati che intendano avviare attività imprenditoriali. Quasi un messaggio protezionista rivolto al popolo delle partite Iva del Nord, base elettorale della Lega. La "rivolta" inglese contro i lavoratori italiani, per questo, risulta esemplare e, a modo suo, educativa. Rammenta che la storia non è scritta una volta per tutte, ma può ripetersi. Anche se non si presenta mai uguale a prima. Semmai, con segno contrario. I romeni, gli albanesi e i marocchini potrebbero, quindi, cambiare immagine ai nostri occhi. Non più violentatori, ladri e spacciatori (potenziali). Ma, piuttosto, concorrenti (reali) sul mercato del lavoro. Non più specchio dell' inquietudine post-materialista, tipica di una società del benessere. Ma delle angosce prodotte da timori "materiali", tipici di una società del malessere (economico). Il reddito e la disoccupazione. Lo stesso, d' altra parte, sta capitando - è capitato - anche a noi. Accolti, fuori dai nostri confini, con diffidenza e ostilità. Come in passato. Ma per motivi opposti. Ieri, ci temevano perché eravamo emigranti poveri, senza lavoro. Oltreoceano. (I poveri fanno sempre paura). Oggi, invece, oltremanica, temono gli italiani perché li considerano "ladri di lavoro".


ILVO DIAMANTI - LA REPUBBLICA 01/02/2009

Contributo inviato da Gianni Stroppa