giovedì 30 ottobre 2008

Tra debiti e divieti i Comuni non fanno opere pubbliche

Corriere della Sera

ROMA- Il sindaco di Benevento Fausto Pepe, già esponente di spicco dell'Udeur di Clemente Mastella, avrebbe volentieri fatto a meno della bacchettata che la Corte dei conti ha assestato alla sua amministrazione il 24 luglio scorso. Purtroppo però, anche il suo comune è scivolato nel tritacarne dei derivati: ad agosto dello scorso anno ha dovuto negoziare un nuovo contratto, visto che l'operazione di swap stipulata l'anno prima avrebbe potuto determinare una perdita di oltre nove milioni di euro. E adesso, pure sperando che il calo dei tassi gli dia una mano, comunque non ha da scialare. Come molte altre amministrazioni locali. Certamente però se i margini di intervento dei comuni italiani per finanziare in proprio le opere pubbliche locali si sono ristretti tragicamente negli ultimi anni non è soltanto per la scelta, talvolta sconsiderata, di affidarsi alla finanza creativa nella speranza di fare un pò di cassa, salvo poi rischiare il dissesto. Il fatto è, sostiene il rapporto sulle opere pubbliche pubblicato da Intesa San Paolo, che "nonostante i proclami di crescente autonomia da assegnare alle amministrazioni decentrate, sono stati posti in essere interventi legislativi tali da ridurre al minimo gli spazi di manovra degli enti territoriali".

Il risultato è che al 31 dicembre dello scorso anno i loro investimenti erano scesi al livello del 2004, anno nel quale avevano toccato un livello del 38% superiore a quello del 2000. Tutto questo mentre il fabbisogno di infrastrutture locali è in crescita fortissima. In Lombardia è superiore dell'11% circa rispetto alla media nazionale, quasi come in Veneto, dove il gap risulta del 13%. Ma nel Lazio il fabbisogno è pari al 142,5% della media nazionale, in Puglia al 168,3% in Campania al 171,1% e in Sicilia arriva al macroscopico dato del 220%. Puglia, Campania, e Sicilia, d'altra parte, sono anche le regioni nelle quali allo stato attuale appare più difficile che altrove mettere in moto finanziamenti. E non a caso sono quelle dove negli ultimi anni gli enti locali sono riusciti a spendere meno soldi. A fronte degli 881 euro procapite investiti in infrastutture in Trentino-Alto Adige nel 2006, le amministrazioni della Campania hanno potuto spendere soltanto 342 euro, contro 209 euro della Puglia e della Sicilia. Tirando le somme, al Sud la spesa per le infrastrutture locali è risultata del 20% inferiore rispetto alla media nazionale.
"Ad aggravare la posizione finanziaria dei Comuni con riferimento alla spesa per investimenti", è scritto nel rapporto curato da Laura Campanini e Fabrizio Guelpa di Intesa San Paolo e da Ref (Ricerche per l'economia e la finanza), "concorre in modo grave il disposto, introdotto convulsamente in fase di conversione" del decreto di luglio sulla manovra economica, "che inibisce l'uso dei proventi da dismissione per il finanziamento della spesa per investimenti". In sostanza, mentre l'articolo 58 di quel provvedimento quasi impone agli enti locali la dismissione del patrimonio non funzionale all'attività, una norma successiva impedirebbe di investire il ricavato. Se questo divieto non venisse rimosso, argomenta il documento, potrebbe venire meno "una qouta pari al 38% della spesa per opere pubbliche degli enti locali". Lo studio considera tuttavia "non meno compromettenti per il finanziamento degli investimenti" le norme che "hanno ridotto l'autonomia tributaria dei Comuni e, di conseguenza, la loro capacità di prendere a prestito".
Giro di vite che ha a che fare con un altro vincolo previsto dal decreto di luglio. Si tratta del divieto imposto ai Comuni di aumentare i propri debiti oltre una determinata soglia. Ipotizzando che questo limite venga fatto coincidere con l'attuale media nazionale, il rapporto giunge alla conclusione che "ai Comuni del Centro-Nord verrà inibito l'uso del debito nei prossimi anni, mentre quelli del Mezzogiorno conservano qualche spazio di manovra".
In questo caso si produrrebbe la curiosa situazione per cui i Comuni del Piemonte, della Liguria e del Lazio si troverebbero a essere più in difficoltà rispetto agli enti locali della Sicilia, della Sardegna e del Molise.

Sergio Rizzo

lunedì 27 ottobre 2008

Il ritorno del Popolo

Repubblica — 26 ottobre 2008

"L' Italia - dice Veltroni gettando lo sguardo all' orizzonte - è un paese migliore della destra che lo governa". Benissimo. Ma il dubbio è che l' Italia alla quale si rivolge il leader del Pd, in piedi nella polvere e seduta sull' erba dello stadio, sia tale anche perché ha compreso che la politica è qualcosa di più e di meglio che dividersi su ogni cosa, specie nello stesso partito, restandone immusonita e a braccia conserte senza produrre niente di nuovo. Il Circo Massimo è pieno, ci mancherebbe. Scenario di ragguardevole bellezza, ruderi e cipressi. Atmosfera serena, partecipazione matura, a tratti perfino gioiosa. Riuscita mescolanza musicale, tutto sommato, nei cortei e sul palco, i Beatles e Bella ciao, gli U2 e Fratelli d' Italia, magari anche Pezzali, chiamato a intrattenere la piazza democratica, di sicuro l' orchestra multietnica di Piazza Vittorio. E poi non ha nemmeno piovuto, come doveva. Tutti contenti, è fatta, anche oggi, evviva. Chissà se alla fine, sotto le nuvole color del piombo, a qualcuno è venuto in mente che quella bella piazza conteneva una specie di lezione. Se la prossima volta, invece che in vista sul palco, sotto il baldacchino, dietro le transenne che delimitavano l' area dei notabili da quella della gente comune, ecco, magari sarebbe potuta andare ancora meglio se i D' Alema, i Rutelli, i Bettini, i Fassino, le Melandri, i Fioroni, i Ranucci, addirittura, invece che lassù, debitamente in vetrina, si fossero mischiati ai manifestanti per raccoglierne più da vicino la voce e anche l' energia. Quale prodigio, insomma, se i dirigenti fossero stati ancora più vicini alla loro gente, rinunciando al ruolo necessariamente privilegiato, in mezzo alla calca, sulla spianata, dove si sta scomodi, o laggiù in fondo, dove non si vede niente, dietro i gazebo, come tutti, come gli altri, come gli ultimi. Che poi, notoriamente, sono i primi. Perché i primi, appunto, sono quelli venuti da lontano, con i treni speciali, quelli normali, e i pullman. Da Avetrana, per dire, lontano Salento, viaggio notturno, a partire dalla mezzanotte, 5 euro e una scorta di bottigliette d' acqua, "a volontà" dice uno con rassicurante allegria. Prima sosta a Canne della Battaglia, per la pipì, poi alla stazione di servizio Casilina. Il pullman li ha lasciati all' Eur, qui hanno fatto colazione, poi hanno preso la metro e adesso sono alla stazione Ostiense. Occhi rossi e piedi gonfi: per il Partito democratico. Così è accaduto. "Io - dice fiero un agricoltore - ho perso una giornata di lavoro". In realtà l' ha regalata al Pd: forse dovrebbero tenerne conto gli ex affittuari del loft, le cui finestre chiuse sono a meno di cento metri dal maxi palco. Per alcuni è un sacrificio, per la maggior parte un divertimento. Comunque la signora con la cerata rossa della Cgil ha 79 anni, viene da Torino ed è partita alle 23,30. Solo quando si potrà leggere questo articolo sarà, forse, tornata di nuovo a casa sua. Forse, potrebbero farci un pensierino gli strateghi di una sconfitta che hanno così duramente fatto fatica a riconoscere. Dividendosi invece di reagire compatti. "Vieni mo' a mangiare": questi manifestanti vengono da Bologna e hanno preso il treno alle 6 e mezzo, sveglia alle quattro. Stanchi? "Mo' no, è normale" sorridono: il partito chiama e loro rispondono, è così dai funerali di Togliatti, gli succede ogni anno di venire a Roma. Uno divora un bignè, camminando; un altro tira il respiro e allunga il passo. I bolognesi, naturalmente, hanno tutti il cappelletto bianco e la bandiera nuova. I napoletani si salutano e si abbracciano, rumorosamente. Arrivano a Roma sospinti da qualcosa di cui s' è persa la traccia, lo spirito della militanza. Senza che alcuno li accolga come si dovrebbe, con un caffè, un panino, un arancio, qualcosa. Ma pazienza, sono abituati a non avere la vita facile. A Ostiense l' onorevole Franceschini gli stringe la mano, firma autografi sui berretti e fa un paio di interviste televisive. Dopo una mezzora se ne va e i treni continuano ad arrivare. Ancora da Bologna, da Genova, da Civitavecchia. Le signore in tuta, con la borsetta leggera e l' ombrello, gli anziani con le scarpe da ginnastica, i ragazzi con il megafono aggiustato con lo scotch. Sembrano, o forse sono davvero in gita, e non gli pesa. Un sorso d' acqua, una sigaretta, un attimo di smarrimento, un sospiro e un sorriso di sollievo al sole autunnale di Roma. Com' è più semplice, e intensa, e generosa, la politica vissuta alla base; e quanto più appagante rispetto a quella dei professionisti! Partono i cortei, tutto va come deve andare, il Circo Massimo si colma. Quanti sono, alla fine? Boh. Benedetto chi è esentato, anche stavolta, dall' esagerazione contabile e necessitata di questi tempi di contatti, audience, sondaggi. Perché negli ultimi anni le stime si confrontano a distanza di mesi e anni e il risultato è che sembrano aver smarrito razionalità, non di rado sfidando matematica, fisica, geometria e buonsenso. Ma quel che davvero fa impressione, oggi, e sorprende più di qualunque eccesso, è che ancora così tante persone hanno risposto all' appello e sono arrivate fin qui. Nonostante la delusione, nonostante la sconfitta e una crisi di rappresentanza che impone novità, fatiche, cautele e che spiega gli aspetti meno felici della vita interna: proliferare di fondazioni, dispetti, sprechi, tentazioni di inciucio sulla Rai, perenne disputa sui soldi, rivalità al sole e pugnalate nell' ombra. Tutto questo oggi può essere, se non archiviato, certo purificato dalla grande partecipazione di tanta gente. I dirigenti del Pd hanno promesso in anticipo il "pienone" senza rendersi conto che forse in questo modo facevano un torto al loro stesso popolo, sminuivano la sua preziosa varietà trasformandola in pura astrattezza numerica, folla indifferenziata. Come quella della foto che l' ufficio propaganda del Pd ha acquistato per avventura, chissà a che prezzo, per reclamizzare sui muri d' Italia la manifestazione, senza accorgersi che era una folla di piazza San Pietro. Ecco: domani non ci sarà bisogno di comprare foto. Al Circo Massimo, per una volta, la politica è ritornata in mano alla "gente" senza paura di qualificare questa entità primaria deformandone la dizione (la "gggente") secondo logiche tele-qualunquiste. E questo è accaduto mentre la regia proiettava a lungo sui maxi-schermi i volti dei soliti noti, D' Alema, Bersani, Epifani, silenziosi visitors a mezzo busto. Nell' arena molti più giovani e donne del solito, belle facce pulite e significative, una varietà e una freschezza che per esprimersi non ha bisogno di edulcorazioni ed espedienti comunicativi perché viene dal basso, secondo l' antica nozione della rappresentanza. Così, vista dal Circo Massimo, sia la vana nevrosi della conta che le cifre inevitabilmente esagerate rischiano di non fare giustizia alla grande e visibile riserva di umanità che il Partito democratico ha messo in campo e portato a Roma da tutta Italia. Striscioni. Cartelli. Ricordi della giornata da riportare al paese. L' orgoglio di Torremaggiore, la fantasia di Pagani, la foto ricordo di Sesto San Giovanni, la compostezza dei sardi. E le ragazze coi capelli verdi scatenate nel mambo, i vecchi metalmeccanici che le hanno viste tutte, quelli che con la mafia devono fare i conti ogni giorno. La storia siamo noi: ma sul serio, come cantavano dal palco, "quelli che hanno letto un milione di libri/ e quelli che non sanno nemmeno parlare". Popolo, nel senso classico e nobile della parola. Persone semplici e anonime, per lo più, ma proprio per questo eccezionalmente piene di allegria e dignità. Emozioni vere, fuori dal recinto dei Vip. "Un' altra Italia è possibile" ha concluso Veltroni. E stai a vedere, forse anche un altro Pd.

FILIPPO CECCARELLI

domenica 26 ottobre 2008

Università, il business dei laureati precoci


Tasic, un serbo di 19 anni, è finito su tutti i giornali del mondo perché, partito per l'America per studiare, ha preso la laurea e pure il dottorato in otto giorni? Noi italiani, di geni, ne abbiamo a migliaia. O almeno così dicono i numeri, stupefacenti, di alcune università. Numeri che, da soli, rivelano più di mille dossier sul degrado del titolo di «dottore». I «laureati precoci», studenti straordinari che riescono a finire l'università in anticipo sul previsto, ci sono sempre stati. È l'accelerazione degli ultimi anni ad essere sbalorditiva. Soprattutto nei corsi di laurea triennali, dove i «precoci» tra il 2006 e il 2007, stando alla banca dati del ministero dell'Università, sono cresciuti del 57% arrivando ad essere 11.874: pari al 6,83% del totale. Tema: è mai possibile che un «dottore» su 14 vada veloce come Usain Bolt? C'è di più: stando al rapporto 2007 sull'università elaborato dal Cnvsu, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, quasi la metà di tutti questi Usain Bolt, per la precisione il 46%, ha preso nel 2006 l'alloro in due soli atenei. Per capirci: in due hanno sfornato tanti «dottori» quanto tutti gli altri 92 messi insieme. Quali sono queste culle del sapere occidentale colpevolmente ignorate dalle classifiche internazionali come quella della Shanghai Jiao Tong University secondo cui il primo ateneo italiano nel 2008, La Sapienza di Roma, è al 146˚ posto e Padova al 189˚? Risposta ufficiale del Cnvsu: «Stiamo elaborando i dati aggiornati per la pubblicazione del rapporto 2008. Comunque i dati sui laureati sono pubblici e consultabili sul sito dell'ufficio statistica del Miur». Infatti la risposta c'è: le culle del sapere che sfornano più «precoci» sono l'Università di Siena (494ª nella classifica di Shanghai) e la «Gabriele D'Annunzio» di Chieti e Pescara, che non figura neppure tra le prime 500 del pianeta. Numeri alla mano, risulta che dall'ateneo abruzzese, che grazie al contenitore unico di un'omonima Fondazione presieduta dal rettore Franco Cuccurullo e finanziata da molte delle maggiori case farmaceutiche (Angelini, Kowa, Ingenix, Fournier, Astra Zeneca, Boheringer, Bristol- Myers...), conta su una università telematica parallela non meno generosa, sono usciti nel 2007 la bellezza di 5.718 studenti con laurea triennale. In maggioranza (53%) immatricolati, stando ai dati, nell'anno accademico 2005-2006 o dopo. Il che fa pensare che si siano laureati in due anni o addirittura in pochi mesi. Quanto all'ateneo di Siena, i precoci nel 2007 sono risultati 1.918 su un totale di 4.060 «triennali»: il 47,2%. La metà.

Ancora più sorprendente, tuttavia, è la quota di maschi: su 1.918 sono 1.897. Contro 21 femmine. Come mai? Con ogni probabilità perché alla fine del 2003 l'Università firmò una convenzione coi carabinieri che consentiva ai marescialli che avevano seguito il corso biennale interno di farsi riconoscere la bellezza di 124 «crediti formativi». Per raggiungere i 148 necessari ad ottenere la laurea triennale in Scienza dell'amministrazione, a quel punto, bastava presentare tre tesine da 8 crediti ciascuna. E il gioco era fatto. Ma facciamo un passo indietro. Tutto era nato quando, alla fine degli anni Novanta, il ministro Luigi Berlinguer, adeguando le norme a quelle europee, aveva introdotto la laurea triennale. Laurea alla portata di chi, avendo accumulato anni d'esperienza nel suo lavoro, poteva mettere a frutto questa sua professionalità grazie al riconoscimento di un certo numero di quei «crediti formativi» di cui dicevamo. Un'innovazione di per sé sensata. Ma rivelatasi presto, all'italiana, devastante. Colpa del peso che da noi viene dato nei concorsi pubblici, nelle graduatorie interne, nelle promozioni, non alle valutazioni sulle capacità professionali delle persone ma al «pezzo di carta», il cui valore legale non è mai stato (ahinoi!) abolito. Colpa del modo in cui molti atenei hanno interpretato l'autonomia gestionale. Colpa delle crescenti ristrettezze economiche, che hanno spinto alcune università a lanciarsi in una pazza corsa ad accumulare più iscritti possibili per avere più rette possibili e chiedere al governo più finanziamenti possibili. Va da sé che, in una giungla di questo genere, la gara ad accaparrarsi il maggior numero di studenti è passata attraverso l'offerta di convenzioni generosissime con grandi gruppi di persone unite da una divisa o da un Ordine professionale, un'associazione o un sindacato. Dai vigili del fuoco ai giornalisti, dai finanzieri agli iscritti alla Uil. E va da sé che, per spuntarla, c'è chi era arrivato a sbandierare «occasioni d'oro, siore e siore, occasioni irripetibili». Come appunto quei 124 crediti su 148 necessari alla laurea, annullati solo dopo lo scoppio di roventi polemiche. Un andazzo pazzesco, interrotto solo nel maggio 2007 da Fabio Mussi («Mai più di 60 crediti: mai più!») quando ormai buona parte dei buoi era già scappata dalle stalle. Peggio. Perfino dopo quell'argine eretto dal predecessore della Gelmini, c'è chi ha tirato diritto. Come la «Kore» di Enna che, nonostante il provvedimento mussiano prevedesse che il taglio dei crediti doveva essere applicato tassativamente dall'anno accademico 2006-2007, ha pubblicato sul suo sito internet il seguente avviso: «Si comunica che, a seguito della disposizione del ministro Mussi, l'Università di Enna ha deciso di procedere alla riformulazione delle convenzioni» ma «facendo salvi i diritti acquisiti da coloro che vi abbiano fatto esplicito riferimento, sia in sede di immatricolazione che in sede di iscrizione a corsi singoli, nell'ambito dell'anno accademico 2006-2007».

Bene: sapete quanti studenti risultano aver preso la laurea triennale nell'ateneo siciliano in meno di due anni grazie ad accordi come quello con i poliziotti (76 crediti riconosciuti agli agenti, 106 ai sovrintendenti e addirittura 127 agli ispettori) che volevano diventare dottori in «Mediazione culturale e cooperazione euromediterranea»? Una marea: il 79%. Una percentuale superiore perfino a quella della Libera università degli Studi San Pio V di Roma: 645 precoci su 886, pari al 73%. E inferiore solo a quella della Tel.M.A., l'università telematica legata al Formez, l'ente di formazione che dipende dal Dipartimento della funzione pubblica: 428 «precoci» su 468 laureati. Vale a dire il 91,4%. Che senso ha regalare le lauree così, a chi ha l'unico merito di essere iscritto alla Cisl o di lavorare all'Aci? È una domanda ustionante, da girare a tutti coloro che hanno governato questo Paese. Tutti. E che certo non può essere liquidata buttando tutto nel calderone degli errori della sinistra, come ha fatto l'altro ieri Mariastella Gelmini dicendo che di tutte le magagne universitarie «non ha certo colpa il governo Berlusconi che, anzi, è il primo governo che vuol mettere ordine». Sicura? Certo, non c'era lei l'altra volta alla guida del ministero. Ma la magica moltiplicazione delle università (soprattutto telematiche), la corsa alle convenzioni più assurde e il diluvio di «lauree sprint», lo dicono i numeri e le date, è avvenuta anche se non soprattutto negli anni berlusconiani dal 2001 al 2006. E pretendere oggi una delega in bianco perché «non si disturba il manovratore», è forse un po' troppo. O no?

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella

venerdì 24 ottobre 2008

Riflessioni su libertà e paura


Spesso può accadere che, dopo una giornata spesa a lavorare, magari dietro una scrivania, a contatto col pubblico, davanti ad un PC, a studiare sui libri o davanti ad un nastro trasportatore, si torni a casa, e si cerchi relax. E nell'isola di relax che ci si trova, se se ne trova il tempo, la lettura o l'ascolto dei telegiornali sono attimi preziosi.

Ed è proprio allora che inizia il divertimento: dichiarazioni tanto decise e infervorate da poter essere poi smentite con la massima calma e tranquillità, che suonano come dichiarazioni di guerra, nell’affermazione di una libertà proclamata. Ma quella che governa è la paura, e diffondere il terrore sembra sia diventata una disciplina olimpica apprezzata a livello mondiale. E paura genera paura. Ma, soprattutto, la paura vende.

Paura dell’altro-da-sé, paura della recessione economica, paura di non farcela.

Forse dunque è per questo che, per paura di non avere la situazione sotto controllo, si inizia a limitare, almeno a parole, la libertà, o almeno lo si sostiene con convinzione.

Credo che il modo di agire potrebbe essere ben diverso. Riporto qui di seguito un discorso di Alcide De Gasperi che mi sembra esemplificativo della tensione verso democrazia, libertà e all’impegno. pur riferendosi alla scelta tra Monarchia e Repubblica, appare estremamente attuale:



La domanda vera è questa: «Volete instaurare la Repubblica, cioè, vi sentite capaci di assumere su voi, popolo italiano, tutta la responsabilità, tutto il maggior sacrificio, tutta la maggiore partecipazione che esige un regime, il quale fa dipendere tutto, anche il Capo dello Stato dalla vostra personale decisione, espressa con la scheda elettorale?
Se rispondete sì, vuole dire che prendete impegno solenne, definitivo per voi e per i vostri figli di essere più preoccupati della cosa pubblica di quello che non siete stati finora, d'aver consapevolezza che essa è cosa vostra e solo vostra, di dedicarvi ore quotidiane di interessamento e di lavoro; ma soprattutto vorrà dire che avete coscienza di potere con la vostra opera difendere nella Repubblica la libertà che è il bene supremo, la libertà di coscienza del cittadino in tutti i campi di fronte allo Stato, ai partiti, alla collettività sociale, la libertà di essere ciascuno padrone in casa vostra. E avete la coscienza che questa forma dello Stato non minaccia, ma rafforza l'unità del paese.1



Si parla spesso di ‘strategia del terrore’, perché c'è sempre qualcosa che ci fa paura affrontare. Fa comodo chiudersi e vedere quel che ci sta accanto. E una visione miope della realtà impedisce di considerare le cose importanti: si smette di investire, si smette di pensare al futuro, a coltivare una società che guardi al di là del proprio naso, non necessariamente la società del "Mulino Bianco", ma una società che si impegni con coerenza, che integri meglio che può, in uno scambio di idee e di culture, insieme all’altro, allo straniero, e non separata da esso.

Penso che il futuro ci chiami ad agire, non a reprimere la novità, al dialogo, alla sfida. E se non investiamo noi nel nostro futuro, o su quello che sarà dei posteri, chi lo farà?

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1 Il testo integrale del discorso è reperibile sul sito Internet www.degasperi.net/show_doc.php?id_obj=1733&sq_id=0.
Contributo inviato da Alessandro Zocchi

Cure ai clandestini: il colpo di spugna della Lega

Ecco l'emendamento presentato in Senato. Denuncia per chi si cura ma non ha il permesso, pagamento anticipato delle prestazioni

“L'accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano”.È questo il passaggio del Testo Unico sull’immigrazione che la Lega vuole eliminare. E spera di farlo con un semplice colpo di penna: “Il comma 5 dell’articolo 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286 è soppresso” recita un emendamentoal disegno di legge sulla sicurezza presentato a palazzo Madama da cinque senatori in camicia verde.L’intento dichiarato è permettere che i clandestini vengano segnalati, e quindi espulsi, dopo le cure. È più probabile però che in questo modo si tengano semplicemente i clandestini lontani dagli ospedali, con le prevedibili disastrose conseguenze per la loro salute e per quella di chi (in caso di malattie infettive) entrano con loro in contatto. Oltre che eliminare il divieto di segnalazione, l’emendamento al disegno di legge sulla sicurezza prevede un giro di vite anche sul pagamenti delle prestazioni sanitarie da parte dei clandestini. Questo andrà effettuato prima delle cure e solo se queste sono urgenti e non differibili potrà essere posticipato. Ad ogni modo, chi si rifiuterà di pagare verrà denunciato.
Scarica l’emendamento presentato dalla Lega

mercoledì 22 ottobre 2008

Le pecorelle di Berlusconi


Opposizione e franchi tiratori affossano la candidatura di Gaetano Pecorella alla Corte costituzionale.


martedì 21 ottobre 2008

Clima bulgaro


Sul clima e la commissione europea Berlusconi accusa l’opposizione di «fare polemiche » contro l’Italia, ma non si sofferma sui Paesi ai quali si è accodato. Ecco l’elenco: Bulgaria, Polonia, Estonia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Romania e Slovacchia. Tutti «inquinatori» dell’ex blocco sovietico.

lunedì 20 ottobre 2008

Il Paese nella morsa della sfiducia

E' come essere in guerra. E forse è proprio così. Anche se gli attacchi aerei e missilistici sono rimpiazzati dagli indici Dow Jones, MIB, Nasdaq e CAC. Il che fa una bella differenza, ovviamente e per fortuna. Ma è una vera guerra quella che si combatte ogni giorno sulle piazze finanziarie di ogni parte del mondo. E come tale è rappresentata, sui media. A ogni ora un bollettino che annuncia i dati della catastrofe. Le borse che crollano dovunque. Mentre i grandi (?) del mondo si incontrano e si affacciano sulle tivù. Per spiegare che non c' è da preoccuparsi, nessuna banca fallirà, nessun risparmiatore perderà i suoi risparmi. Producendo l' effetto opposto. Perché è difficile non farsi prendere dal panico quando i grandi del mondo ripetono che non bisogna farsi prendere dal panico. Sentirsi tranquilli quando le autorità intimano che bisogna restare tranquilli, mantenere i nervi saldi e il sangue freddo. Se non vi fossero motivi di timore, perché affannarsi a rassicurarti a ogni minuto che passa? La spiegazione principale di questa crisi finanziaria senza fondo, peraltro, è che sui mercati ormai domina la sfiducia. Nessuno si fida di nessuno. Com' è ovvio, visto quel che è successo nel sistema finanziario negli ultimi anni. Tuttavia, in questo caso, mercati finanziari e società si rispecchiano. Soprattutto da noi. In Italia. Certo, non viviamo in un paese da incubo (come ha opportunamente rammentato il cardinal Bagnasco alcune settimane fa). Però bisognerebbe spiegarlo al paese. Visto che in Italia si rilevano, da tempo, gli indici di pessimismo e di insicurezza più elevati d' Europa (come hanno mostrato i sondaggi di Eurobarometro). Un clima d' opinione che sembra essersi ulteriormente deteriorato. Sei italiani su dieci pensano, infatti, che in questo momento non valga la pena di "fare progetti impegnativi per sé e la propria famiglia, perché il futuro è troppo carico di rischi" (sondaggio nazionale Demos, condotto nei giorni scorsi). Si tratta della misura più elevata registrata dal 2000 fino ad oggi. Il problema è che questo sentimento, al di là delle ragioni ragionevoli che lo ispirano, in Italia trova importanti moltiplicatori. In particolare, lo sbriciolarsi dei legami e delle solidarietà sociali, alimentato dalla decomposizione urbana. Il gioco dei risentimenti incrociati fra gruppi professionali, di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Professori, medici, avvocati, maestri, farmacisti, tassisti, broker, commercianti e commercialisti ~ Una lista infinita, destinata ad allungarsi. Tutti contro tutti. Deprecati a prescindere. Volta a volta: poveracci, privilegiati, evasori, fannulloni, ladri, incompetenti. Oppure, semplicemente, "nessuno". Un' entità fantasmatica, come gli operai. Che fanno notizia solo quando muoiono sul posto di lavoro. Lo sfarinarsi delle appartenenze professionali, d' altronde, è drammatizzato (e accelerato) dalla perdita di rilevanza delle grandi organizzazioni di rappresentanza economica (Demos, ottobre 2008). In particolare, il 27% dei cittadini esprime fiducia nel sindacato, il 25% verso Confindustria. Si tratta di indici fra i più bassi nella graduatoria dei principali riferimenti associativi e istituzionali in Italia. La fiducia nel sindacato, soprattutto, scivola al livello minimo degli ultimi due anni. Inoltre, scende più in basso della media nella base di riferimento: gli operai (22%). Mentre sale soprattutto fra i pensionati. Uno scenario simmetrico rispetto agli anni Novanta, quando sindacato e Confindustria avevano garantito consenso allo Stato, dopo il tracollo della prima Repubblica. Era la stagione della concertazione, a cui si oppone, oggi, una società "sconcertata". Dove le tradizionali organizzazioni intermedie di rappresentanza non rappresentano più neppure i loro iscritti. La loro base professionale di riferimento. Come potrebbero, d' altra parte, supplire al deficit di fiducia delle istituzioni se esse stesse sono percepite come istituzioni e, per questo, sfiduciate? Il collasso delle borse e del sistema finanziario, peraltro, rischia di accentuare ulteriormente le divisioni interne alla società. Di renderle profonde come baratri. Il 47% degli italiani (Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop, di prossima pubblicazione) afferma, ad esempio, di aver ridotto i consumi alimentari, in famiglia. Ma il dato scende sotto il 40% fra imprenditori, lavoratori autonomi e professionisti, mentre supera il 50% fra gli operai e i pensionati. Da ciò il problema: come possa mantenere un grado accettabile di coesione una società così incoerente. Tendenzialmente dis-integrata. E come possa, a maggior ragione, non ri-esplodere quel dissenso politico che travolse, dall' autunno 2006, il governo Prodi e le forze che lo sostenevano. In una fase assai meno drammatica, economicamente, rispetto a quella attuale. Oggi, anzi, si osserva un orientamento contrario. Visto che la fiducia nel governo continua a crescere e ha raggiunto il livello più alto dal settembre 2002. (Al contrario dell' opposizione di centrosinistra, ormai ai minimi storici). La spiegazione più ragionevole sta, a nostro avviso, proprio nel clima di inquietudine e diffidenza che inquina il nostro mondo. Questa società si sente sotto assedio. E le forze politiche, gli uomini di governo, lo stesso Presidente del Consiglio confermano le sue paure. Ne traggono motivo di consenso. Promettono di difenderla dai nemici che la minacciano. Immigrati, rom, prostitute, automobilisti e motociclisti ubriachi, tossici e spacciatori. Promettono, inoltre, di contrastare il disordine sociale, devastato dalla perdita di senso e di autorità. Combattono la morte del futuro e il collasso del presente attraverso il richiamo al passato. Attraverso i valori e i simboli pre-sessantottini. I grembiulini, il voto di condotta, i bambini che si alzano quando entra il professore. Attraverso lo Stato protettivo e protettore, gli impiegati pubblici che, finalmente, la smettono di poltrire, i professori che, finalmente, si fanno rispettare, i maestri, che, finalmente, tornano ad essere unici. Questa società sotto assedio (come la definisce Bauman) applaude l' esercito sparso sul territorio e nelle città, i vigili urbani che diventano poliziotti, i sindaci che si fingono sceriffi. I "ministri della paura", geniale invenzione di Antonio Albanese (puntualmente superata dalla realtà). Questa società, di fronte al terrorismo delle borse, come dopo l' attacco alle torri nel settembre 2001, esprime domanda di certezza e di autorità. Così, si raccoglie, trepida, intorno al Grande Rassicuratore. Che, dagli schermi, dice ciò che tutti temono e tutti vogliono sentire. Non c' è motivo di avere paura. Cioè: abbiate paura, perché ce n' è motivo. Ma io - solo io - vi salverò. Dalle banche e dai banchieri, dai subprime e dai fondi tossici, dalle cattive azioni e dai cattivi maestri (sempre loro~). Dai broker armati, che vi minacciano: "O la borsa o la vita". E se le borse non mi ascoltano io le chiuderò. Abbiate sfiducia negli altri. Paura del mondo. Il futuro è ieri. E' il consenso triste del nostro tempo. Intriso di sfiducia e di paure. Prigioniero della nostalgia.

ILVO DIAMANTI

sabato 18 ottobre 2008

Tragica profezia


Sono passati ben 58 anni ma niente è più attuale di questo lungo discorso sul bene più prezioso che uno stato possiede, la scuola.
La storia in Italia non insegna, gli italiani sono un popolo miope e smemorato.
Che tristezza!

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950

Cari colleghi,Noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università [...]. Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane.
Ma non è tutto qui, c’è qualche cosa di più alto. Questa nostra riunione non si deve immiserire in una polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo.
Ora, siete proprio sicuri che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l’art. 7? Ma lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà [...].
La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue [...].La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società [...].A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità (applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. » l’art. 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente.
Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima (applausi). Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’art. 33 della Costituzione che dice cos”: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Dunque, per questo comma [...] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione [...].Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione: dell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’art. 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni [...].Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre:
(1) che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre.
(2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione.Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime.
Facciamo l’ipotesi, così” astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Cos” la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina.
L’operazione si fa in tre modi:
(1) ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni.
(2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette.
(3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. » la fase più pericolosa di tutta l’operazione [...]. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito [...].Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”. Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche [...]. Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla [...]. E venuta così fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico.Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno [...].Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? » un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica. Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! [...]. Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito [...].Poi, nella riforma, c’è la questione della parità. L’art. 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità, dice: “La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali” [...]. Parità, s”, ma bisogna ricordarsi che prima di tutto, prima di concedere la parità, lo Stato, lo dice lo stesso art. 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo Stato ha il compito di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso: che lo Stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo Stato favorisca questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale alla bestialità [...].Però questa riforma mi dà l’impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto c’era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile spianato. Anche nella riforma c’è il cacciatore con il fucile spianato. » la scuola privata che si vuole trasformare in scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell’avvenire lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di partito.
E poi c’è un altro pericolo forse anche più grave. » il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. » il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l’onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. » accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.

Contributo inviato da Lorenza Sordo

martedì 14 ottobre 2008

RISO PER I PROFUGHI SAHRAWI


Campagna di raccolta di riso da inviare ai campi di rifugiati sahrawi in Algeria.

Sabato 18 ottobre 2008


Nei mesi scorsi il Presidente della Croce Rossa Sahrawi ha lanciato un appello urgente per chiedere un aiuto concreto alla popolazione sahrawi che si trova ora a dover superare una difficilissima crisi alimentare. Gli stocks di emergenza sono esauriti da tempo, l'aumento dei prezzi a livello mondiale non sta certamente rendendo più facile la situazione.

Per contrastare la malnutrizione, cronica nelle categorie più vulnerabili della popolazione in costante aumento, è fondamentale il ripristino degli stocks alimentari di sicurezza.

Il presidente della Croce Rossa Sahrawi ha rivolto il suo appello alla comunità internazionale affinché provveda in ogni modo possibile ed in maniera sostanziale al superamento di questa ennesima emergenza.

L'Associazione Jaima Sahrawi insieme alle organizzazioni sindacali CGIL, CISL, UIL della provincia di Reggio Emilia si sono fatte portavoce di questo appello ed hanno indetto questa campagna di raccolta di riso.

Il 16 ottobre, la FAO nel giorno della sua fondazione celebra la Giornata Mondiale dell'Alimentazione con l'intento di ribadire che garantire a ciascun essere umano un'alimentazione adeguata e regolare non è solamente un imperativo morale ed un investimento proficuo dal punto di vista economico, ma si tratta anche della realizzazione di un diritto fondamentale, universale ed inalienabile contenuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 di cui quest'anno si celebra il 60° anniversario.

La campagna "Riso per i profughi sahrawi" ha come obiettivo di raccogliere il maggior quantitativo di riso da inviare ai campi di rifugiati sahrawi attraverso una carovana di aiuti in partenza dall'Italia a novembre 2008.

Chiediamo di allestire contemporaneamente punti di raccolta di riso davanti a negozi/supermercati sabato 18 ottobre in tutta la provincia di Reggio Emilia.

Ciascun gruppo si organizzerà autonomamente nell'allestimento dei punti di raccolta, che potrà avvenire anche attraverso altre modalità.

La campagna terminerà il 31 ottobre 2008.

Il riso raccolto dovrà essere sistemato in scatole di cartone di medie dimensioni e consegnato a Reggio Emilia presso la ditta di spedizione Embassy previo contatto telefonico.

Comunicateci quindi se intendete aderire e partecipare all'iniziativa, in caso positivo vi chiediamo di contattarci via mail (jaimasahrawi@libero.it) per dare la vostra disponibilità, per informarci dove e come intendete organizzare autonomamente punti di raccolta, così da poter coordinare al meglio l'iniziativa, provvedere a dare una corretta informazione alle stampa e per consegnarvi i volantini ed i manifesti per pubblicizzare l'iniziativa.

Grazie della collaborazione.

Con cordialità Cinzia Terzi

Contributo fornito da Sara Quaglia.

Nasce YouDem.TV


Il 14 ottobre nasce YOUDEM.TV, la TV fatta dai tuoi video, i tuoi racconti,le tue idee.
Sarà la prima Social TV dedicata alla politica italiana e promossa dal Partito Democratico con l’intento di realizzare un luogo di scambio,confronto e condivisione che coinvolga la base del nostro partito.
Già da oggi potete contribuire attivamente alla sua creazione, iscrivendovial sito www.youdem.tv e iniziando a pubblicare i vostri video. AttraversoYouDem, infatti, potete proporre le vostre idee, partecipare alle discussionicon gli altri utenti e con i politici e gli opinionisti presenti sulla piattaforma, sollevare questioni sociali da porre all’attenzione di tutti,con la certezza di essere ascoltati.
Tutti i contributi video che invieretesaranno disponibili on line sul sito e potranno far parte del palinsestotelevisivo di Youdem, che sarà visibile sul canale 813 di Sky dal 14 ottobre.
Attualmente sulla piattaforma si discute di razzismo, immigrazione, scuola e si stanno avviando i primi programmi partecipativi, come “Salva l’Italia”,che raccoglierà tutte le idee e proposte per migliorare il nostro Paese.
Ma sono solo i primi temi, ogni settimana ce ne saranno altri.
Vi invitiamo ad accedere subito alla versione Beta, per costruire You Deminsieme.

Inviate i vostri contributi, le vostre idee e registratevi su http://www.youdem.tv.
YouDem sarà visibile a tutti dal 14 ottobre 2008 su www.youdem.tv, via satellite sulla piattaforma SKY canale 813 e su tutti i cellulari di terza generazione.

Un giorno alle corse


Riporto un interessantissimo intervento di Luca Sofri (membro del consiglio direttivo nazionale del PD, giornalista, blogger e conduttore radiofonico) che condivido inpieno.

Utile, se non altro, per qualche spunto di riflessione:

"Un giorno alle corse (pubblicato su wittgenstein.it il 3 Ottobre 2008)

Visto che sta circolando anche qualche imbarazzante inesattezza, incollo qui l’appuntone che mi ero scritto – integrandolo con qualcosa tirata fuori all’ultimo momento – per la Direzione Nazionale del PD di stamattina. Poi ho parlato a braccio,e quindi alcune cose sono saltate, ma i concetti ci sono: scritti senza rileggere,non badate alla forma.

Allora, vi chiedo scusa se approfitto del fatto di essere qui per dire un po’ di cose anche poco piacevoli da sentire. Farei volentieri a meno, e mi sarebbe piaciuto che in questi mesi di vita del partito democratico e in queste settimane di suo letargo le avesse dette qualcun altro. Ringrazio Giovanni Bachelet che mi ha preceduto e ha seminato qualche traccia di preoccupazione e insoddisfazione per cosa sta accadendo del PD, facilitandomi un po’ le cose. Mi ha risparmiato – solo un poco - l’imbarazzo e il fastidio che ho io stesso per la figura di quello che arriva qui per la prima volta e pretende di spiegare cosa succede fuori. Ma si dà dannatamente il caso che molti qui diano l’impressione di non saperlo, cosa succede fuori: o di fregarsene. E quindi con riluttanza - con molta riluttanza – faccio quella parte lì.
Della relazione di Dario Franceschini condivido tutto quel che riguarda i modi difare opposizione. Con un paio di piccole eccezioni – che gli segnalo per suggerirgliuna più efficace impostazione dialettica della questione –: vedo una contraddizione tra il sostenere che su cinque anni dobbiamo avere il passo della maratona e partire piano, e il segnalare la difficoltà di recuperare consensi in tempo per le troppo imminenti elezioni europee. Quanto alla metafora della maratona, è più bella, ma secondo me più incongrua agli anni a venire di quella della formula Uno: si parte subito forte, e si deve andare più forte che si può fino all’ultimo giro.E non mi pare vero che tutte le maggioranze appena insediate nella recente storia europea abbiano riscosso i primi cali di consenso solo dopo molti anni: non nel caso di Sarkozy, per esempio, e non in quello dell’ultima vittoria elettorale di Blair.Ma ripeto, sulle modalità dell’opposizione in questi mesi sono del tutto d’accordo.Sono meno d’accordo con Franceschini sull’analisi dello stato del PartitoDemocratico. E spiego perché. Come sappiamo, malgrado un’iniziativa politica rivoluzionaria, moderna, e creativa come quella presa da Walter Veltroni durante la campagna elettorale, abbiamo perso le elezioni. Eppure quel risultato è stato un successo, proprio per questo: era impossibile vincerle, quelle elezioni, e il PartitoDemocratico, dato il contesto e le condizioni non poteva andare meglio di così: nessun leader e nessuna linea politica avrebbero potuto farlo andare meglio di così. Sfido chiunque a sostenere esempi contrari.
Inciso: che qualcuno faccia infantilmente l’offeso di fronte alla tesi che l’immagine del passato governo Prodi abbia limitato e di molto, le possibilità di vittoria alle elezioni, tesi condivisa là fuori dal primo studente di liceo all’ultimo politologo,la dice lunga sulle fesserie su cui perdiamo tempo.Il secondo concetto, per me assai più grave e incomprensibile, è che dopo quella sconfitta, e quel successo – insisto: un successo - il PD è crollato. È dopo che è crollato. Sono passati sei mesi in cui non c’era altro da fare che farsi venire delle idee per farlo crescere, che lavorare per guadagnare fiducia e credibilità senza l’assillo del rischio elettorale, senza la complicazione del dover governare bene,senza il bisogno di un’opposizione agguerrita e instancabile: la maggioranza fa quello che le pare e in questi sei mesi, salvo rarissime eccezioni, potevamo fare un sacco di belle cose.Invece.Il PD oggi è molto in difficoltà: chiedete in giro. Peggio: ha un’immagine di partito allo sbando: cito mi pare lo stesso Walter Veltroni quando disse dell’agonizzante governo Prodi, “si avverte una sensazione di sfarinamento”. E guardate, so distinguere le fesserie dei giornali da quello che pensa la gente: ma so anche che le fesserie dei giornali orientano molto di quello che pensa la gente, e so che le fesserie dei giornali non possono diventare un alibi. Se chiedete in giro alle persone normali cosa pensano stia facendo il PD, vi risponderanno che Veltroni e D’Alema si fanno la guerra. E non posso credere davvero che uomini intelligenti reputino che la soluzione a questo tipo di comunicazione sia semplicemente rispondere“no, non è vero”.Certo, c’è la crisi della sinistra europea, c’è la difficoltà delle sfide della modernità, eccetera eccetera. Ma siamo tutti stufi di alibi per le sconfitte: bisogna saper distinguere tra spiegazioni e giustificazioni. Non gliene frega niente anessuno di sapere le ragioni per cui non riusciamo, che sono sempre le stesse. Se non riesci, ti sposti, e fai fare a qualcun altro. Avviso di un’altra cosa, perché in giro le vanità personali e i nervi scoperti prevalgono su tutto. Non mi interessa sapere di chi sono le colpe: è irrilevante. Distinguo tra colpe e responsabilità ufficiali, e mi interessano le seconde. E soprattutto mi interessa capire quali cause generano quali effetti, in modo da rimuovere le cause.
Se dico che il governo Prodi si è fatto molto malvolere, non mi interessa se la colpa sia di Prodi o di quattro ministri, o dell’ufficio pubbliche relazioni. Ma mi interessa cambiare registro rispetto a uno che non funziona: mi interessa non convocare più – in tempi di casta, di distanza dai cittadini, eccetera – non convocare più una riunione alla Reggia di Caserta. Per dirne una. E se l’Italia in generale, la sinistra in particolare, e il maggior partito della sinistra italiana nel dettaglio, sono nelle condizioni più disastrosamente scoraggianti dell’ultimo mezzo secolo, mi interessa che non si affronti questa situazione con gli uomini e i metodi che hanno portato fino a qui. Non riesco a capire come le persone che hanno avuto incarichi di altissima responsabilità nei partiti da cui viene questo, e nei governi che hanno preceduto e favorito questo –tra cui alcune persone per cui ho una grande ammirazione e riconoscenza – vivan osenza nessuna logica consequenzialità la loro storica corresponsabilità nel fallimento.Invece sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente, e nessuna di queste fasi si fa ricordare come un momento splendente nella storia di questo paese.
Chiudo la parte critica, che spero non abbia bisogno di altri esempi, che altrimenti potrei tenervi qui a ore e non sarebbe bello per nessuno. Ma la chiudo parlando di Walter Veltroni, di cui ho infinita stima e la cui leadership sostengo fermamente (e trovo pazzesco che sia data cittadinanza a contestazioni che non rappresentano nessuno. Nessuno. Veltroni è diventato leader del PD per fare il leader del PD, non per vincere le elezioni pochi mesi dopo. Sfido chiunque contesti l’attuale segreteria a dire a nome di chi parla. Dei voti ottenuti con un sistema elettorale senza preferenze? Gli unici qui dentro che parlano a nome di qualcuno sono coloro che hanno preso voti alle primarie dell’anno scorso).
Bene, non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti, come vedete, e non sarei all’altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate che avvengono dentro questo partito. E dichiaro che quando una cosa mi pare particolarmente assurda e incomprensibile, tendo a pensare sempre che mi sfugga qualcosa, prima di dire “è assurdo!”. Dove non vedo spiegazione, la chiedo, prima divolermene creare una che mi piaccia. Sull’anacronistica pigrizia e inadeguatezza della classe dirigente italiana – non parlo di quella di destra, che è al di là delle possibilità di analisi – per esempio ho chiesto molto in giro, e solo in assenza di altre giustificazioni o valide obiezioni ho dovuto convincermi che si spiega solo con pigrizie, vanità, mediocrità, egoismi e presunzioni umane. Normale, le abbiamo tutti, anch’io e parecchie: e infatti ho evitato di fare un lavoro che dovesse mettermi al servizio degli altri, come la politica. Per fare politica, soprattutto di questi tempi, ci vuole la capacità di mettere se stessi e le proprie ambizioni non in secondo, ma in quinto piano: o la capacità di soddisfarle, le proprie ambizioni, fingendo di non averne. E temo che se ce ne andiamo da qui, tutti noi che non soddisfiamo questo requisito,restano davvero in pochi. Ma io non mi so spiegare Walter Veltroni, e quindi immagino che qualcosa mi sfugga. Cosa mi sfugge? Tutto il paese fa battute – divertite o scorate – sullo stordimento da KO che avrebbe colpito il nostro segretario, o quel che è. Tutti si chiedono dovesia finito il Veltroni della campagna elettorale: tutti notano la totale differenzadi passo, ovvero l’assenza. Dico solo che ho trovato incredibile che sull’unicain iziativa politica e di comunicazione forte presa da Walter in questi mesi –l’intervento sulla questione Alitalia – invece che leggere e sentire almeno sullastampa non vicina al centrodestra “Veltroni interviene sulla questione Alitalia”, senon “Veltroni risolve la questione Alitalia”, ho letto e sentito solo “Veltroni: sonointervenuto io”. Con conseguente prevedibile derisione e demolizione del concetto daparte del centrodestra. Ma che modo è? Ma c’è l’abbiamo un responsabile dellacomunicazione, un gruppo di persone che lavorino su queste cose, che sono le cose concui poi si vincono i cuori e le elezioni? Tutto il paese – persino l’ultimo avventore di bar – constata l’inesistenza di un gruppo dirigente compatto, di una squadra intorno al leader, di un’identità dipartito. E stendo un velo pietoso su come stiamo affrontando la questione Rai, e suq uali candidati stiamo investendo quella che pare essere la maggiore battagliapolitica del momento: per non parlare dell’insistenza sul candidato alla presidenzadella commissione di viglianza Rai, che non ha una sola ragione sensata al mondo, se non quelle della peggior politica traffichina e perdente.Tutto il paese si chiede: Warte, che stai affa’? Dove sei? Che ne è del famoso partito moderno, leggero, al passo con il futuro? Che ne è di quella che Goffredo Bettini stamattina sul Foglio ha chiamato “la speranza che abbiamo impiantato”? Io sono d’accordo con Piero Fassino quando sottolinea l’importanza della questione della leadership: ma non credo, diversamente da lui, che dobbiamo “discuterne” della questione della leadership. È una questione che ci ha superato, quella della necessità di leader efficaci e comunicativi, e dobbiamo solo farci i conti. E abbiamo avuto al fortuna di trovare un leader come Veltroni che in campagna elettorale ha mostrato assieme grande capacità di raccogliere consenso e popolarità e grande visione e capacità politica e concreta. Ma dov’è finito quel Veltroni lì? Chi se ne sta occupando, di questo partito? Warte, cosa mi sfugge? Cosa ci sfugge? Perché ti avviso, siamo in parecchi. E siamo il famoso paese reale, non una cosa che si snobba con un’alzata di spalle e la legittima convinzione di essere quelli che sanno fare le cose, altro che chiacchiere. Le chiacchiere stanno affondando questo partito.Vi dico cosa farei io. Passerei tutto il tempo a inventarmi delle cose: a farmi venire delle idee. A mostrare al paese, per i prossimi tre anni, che stiamo facendo delle cose e delle buone cose. L’intervento su Alitalia poteva essere uno. Era fare. Tutte le dichiarazioni su Berlusconi Di Pietro o la Rai, invece sono dire. Sono inutili, roba vecchia, perdite di tempo. La politica non si può più fare così, se si vuole davvero fare, la politica: se non si vuole tenere una rendita personale inattesa di inutili promozioni o lontane pensioni. La politica oggi si fa in modo rivoluzionario, o si perde, e si perde prima di tutto con se stessi. Le persone che sono qui oggi – salvo i pochi che hanno meritatamente legato il proprio nome alla creazione del Partito Democratico – non saranno ricordati per niente di buono. Non èuna cosa bella, perché ci sono un sacco di brave e capaci di persone: ma è la verità. Siamo brave e capaci di persone inesistenti nella storia, che non hanno saputo mettere delle pezze sui disastri di questo paese. Nel migliore dei casi, un ministero ininfluente quella volta là,una legge già abolita quell’altra volta. Siete la leadership? Siete il modello? Siete quelli che devono guidare il cambiamento? E allora andate via da Roma, per un anno. Trovatevi un’altra città, un altro pezzo di Italia da conoscere e aiutare, e andate là. A Cosenza, a Treviso, aSassari. Sì, lo so, state già pensando “i bambini, la famiglia, figuriamoci”. Ma che impegno è quello in queste condizioni non è capace di grandi sacrifici? Io vi capisco: non ne sarei capace, non mi sentirei disposto a tanto. E infatti faccio altro.Cameron ieri ha detto “per risolvere i guai straordinari della finanza di queste settimane, non abbiamo bisogno del solito, abbiamo bisogno di cambiare”.Continuo. Date metà del vostro stipendio da parlamentare a un progetto concreto – sì,lo so, che già lo date al partito: ma non lo sa nessuno, e soprattutto non glienef rega niente a nessuno. Guardate che la questione Casta è momentaneamente accantonata perché ci sono state le elezioni e una momentanea distrazione. Ma tornerà presto –non parlo del grillismo, ma delle legittime e fondate proteste sulla condizioneintollerabile della nostra classe politica. E quando tornerà, noi non saremo attrezzati per venirne assolti. Prendiamo quei soldi e creiamo una scuola, borse distudio, aiutiamo le amministrazioni locali del PD. Facciamoci delle buone cose e diciamolo. Pubblichiamo – sul serio – non in un angoletto del nostro sito, il bilancio del partito, trasparentemente. Creiamo un gruppo che si occupi efficacemente– dico efficacemente e professionalmente – della comunicazione del partito, e una struttura che raccolga idee e proposte e richieste. Questa mi sembrava di non potervela suggerire, ma qualcuno prima di me vi ha già saggiamente accennato: aboliamo, attenzione che non scherzo, aboliamo i ministri ombra. È stata una delle trovate comunicative più controproducenti avute finora, e lo è ogni giorno. Ci ridono dietro, ma pure gli elettori del PD. Ricambiamo totalmente se non la dirigenza del partito – non arrivo a chiedere tanta banale ovvietà – ma almeno tutte le figure destinate alla comunicazione pubblica: che daV espa e Floris ci vada Matteo Colaninno, ci vada Cuperlo, ci vada Alessia Mosca, ci vada Zingaretti, ci vadano i dirigenti di domani, che altrimenti non lo saranno mai,senza nessuna visibilità e autorevolezza pubblica. Vogliono D’Alema e Rutelli? D’Alema e Rutelli dicano no, grazie: e mandino Letta e Cuperlo. E impegnamoci con ogni mezzo e in modo esibito ogni giorno per cambiare questa legge elettorale: oltre che sacrosanta, sarebbe la battaglia più condivisa da tutto il paese, oggi. Altrimenti ci ritroveremo quattro mesi prima delle prossime elezioni...
Siete capaci di farle, queste cose? Siamo capaci? Perché se non siamo capaci, non siamo capaci di fare politica, di fare il bene di questo partito, della sinistra italiana e di questo paese. E ne facciamo il male, ogni ora che passa: nessuno si senta assolto.Vi chiedo di nuovo scusa: ma vi prometto che non verrò a ripetere queste cose una seconda volta."

Segnalazione inviata da Andrea Francato

sabato 11 ottobre 2008

Quanta nostalgia della Politica come Servizio


Proviamo a ritrovare meraviglia, stupore e, perché no, riscopriamo anche l’indignazione

Da anni ormai mi ero riproposto di non lasciarmi più coinvolgere.
Dopo aver provato delusione ed amarezza ed essere stato persino usato e strumentalizzato su uno dei miei cardini valoriali fondamentali che è quello rappresentato dall’amicizia, ricavandone unicamente frustrazione e sfiducia complessiva in quella che, dal mio punto di vista, viene impropriamente ed inappropriatamente definita e si ritiene la dirigenza politica.
Ecco che, in occasione di un incontro con dei vecchi e veri amici con i quali per tanto tempo ho condiviso valori ed impegno politico, ho cominciato a discutere sul fatto che il chiamarci fuori in un qualche modo era persino contrario al nostro stesso modo di vedere e di concepire la politica come servizio e quindi ci siamo impegnati per le primarie del Partito Democratico che sentivamo più vicino alle nostre sensibilità. Successivamente mi sono confrontato anche con una mia “vecchia” amica ed anche in questo caso insieme convenivamo che proprio perché crediamo in certi valori abbiamo il dovere civico quantomeno di trasmetterli e di proporli.
Se a questo aggiungo i colloqui con colui che poi è democraticamente diventato il Coordinatore del Circolo di Badia, l’amico Gianni Stroppa per quanto attiene alla comune visione, radicamento e convincimento su valori come “Coerenza ed Impegno” e gli stimoli ed incoraggiamenti di alcuni giovani e persone che ritengono che la mia esperienza possa essere utile a dare un contributo operativo in termini di sostegno e stimolo, di impegno di testimonianza personale, di credo nel principio fondamentale di concepire la politica come servizio a favore della comunità, eccomi qui come sempre a riprovare a credere ed impegnarmi con gli altri amici per una possibile società migliore.

Mi scuso per la premessa un po’ autobiografica ma forse utile come risposta a qualche interrogativo per qualcuno.
Vorrei proporre alcune riflessioni operative su quanto accaduto nella nostra comunità in particolare dalle ultime amministrative. Devo precisare che gli interrogativi che propongo non hanno ancora trovato risposta convincente e razionale dentro di me, e chiedo un contributo di riflessione di aiuto nella comprensione.
Alle ultime amministrative del 2004, se non sbaglio, noi cittadini di Badia Polesine siamo andati alle urne ed avevamo la possibilità di dare la nostra condivisione e consenso espresso con la manifestazione di voto ad una delle quattro liste (Badia al Centro, Lega Nord, Liberamente a Sinistra, Progetto per Badia), formate, suppongo sulla base di un preciso specifico programma, concordemente predisposto che i vincitori si sarebbero impegnati a realizzare e gli altri all’opposizione avrebbero dovuto verificare e sollecitare il rispetto di tale programma.
Quindi, noi cittadini abbiamo con il nostro voto scelto la compagine ed il programma nel quale ognuno di noi si rispecchiava o per condivisione di obiettivi o perché vicino alle proprie sensibilità, vincolando gli eletti al mantenimento degli impegni assunti e per i quali avevano ottenuto il consenso.
Ad elezioni ultimate vince una compagine che dopo poco tempo si sgretola e si forma all’interno del consiglio comunale una nuova maggioranza trasversale che, a quanto mi è dato conoscere, assomma sensibilità ed appartenenze diverse.
E qui sorge il mio primo interrogativo: Se vi erano 4 liste originarie con 4 candidati sindaci, con quattro programmi diversi e con alleanze e riferimenti ideologici, culturali e sociali diversi, dopo le elezioni tre di queste compagini erano in Consiglio, mi chiedo, pur nel rispetto delle idee, cultura e sensibilità di ognuno, come sia stato possibile non tenere conto della volontà dei cittadini.
Ne consegue che abbiamo al governo della ns città una maggioranza che non è quella voluta dai cittadini, che è sicuramente una somma di numeri ma che non ha, dal mio punto di vista, alcun collante istituzionale.
E poi qual è il nuovo programma condiviso?
Intendiamoci, tutti possiamo cambiare idea, ma se siamo investiti e delegati dai nostri elettori abbiamo il dovere di rimetterci quantomeno al loro giudizio altrimenti viene da chiedersi chi rappresentiamo? In virtù di quale mandato prendiamo posizione senza correre il rischio di essere personalizzati ed autoreferenziali?
L’incredibile è che tutto questo, eccezione fatta per qualche purtroppo isolato tentativo di richiamare l’attenzione, è stato vissuto passivamente da tutti noi quasi con una sua ineluttabilità e preoccupante normalità.
Dopo anni ho deciso di assistere come pubblico ad alcuni Consigli Comunali, anzi per la verità a due: quello sul Consuntivo e l’ultimo (lunedì 9 Settembre, ndr). Non entro nel merito degli argomenti discussi che sono di una preoccupante drammaticità, ma come cittadino sono veramente rimasto meravigliato dai livelli di attenzione dei vari assessori mentre il collega esponeva la relazione, come se il tutto facesse parte di una sorta di “rituale” obbligatorio da parte degli uni di leggere mentre gli altri, invece che partecipare e manifestare attenzione ai lavori del Consiglio, si preoccupavano visibilmente di altro con un costante andirivieni e colloqui privati all’interno dell’aula consiliare. Tanto alla fine contano i numeri no?
Ma la mia delusione forse derivava dal fatto che mi ero abituato in passato ad amministratori con il senso del ruolo, dello status e con la consapevolezza istituzionale e costituzionale, che avvertivano e sentivano il peso delle responsabilità, che privilegiavano il modello del “bonus pater familias”, che avevano e perseguivano precisi obiettivi ideologici e culturali, dove il confronto con l’avversario politico era considerato comunque uno stimolo a fare meglio e di più. Scusate, che ingenuo, non mi rendo conto che oggi valgono le regole del mercato, dei numeri, dei condizionamenti e non tengo conto che: “preferiamo il potere alla libertà, il denaro all’onestà”[1].
Già dimenticavo per converso che abbiamo però Sindaco ed Assessori che in virtù della funzione ricoperta, con versatilità, competenza, motivazione, spirito di servizio sostituiscono le Educatrici del Nido dimostrando che tutti possiamo fare tutto, come ha riportato la stampa locale.
Ecco, convinto come sono di voler coerentemente perseguire e condividere principi di giustizia ed equità sociale, solidarietà, coerenza, onestà, responsabilità, cultura politica, ho aderito a questo nuovo tentativo di laboratorio di idee, dove intendiamo crescere, confrontarci, stimarci, rispettarci ma soprattutto convinti che la meraviglia, lo stupore, l’ascolto, la riflessione, la coesione e la disponibilità disinteressata volontaria e consapevole contribuirà al recupero concetto della politica al servizio della comunità e non del culto autoreferenziale della propria personalità.

Pasquale Bongiorno

[1] Giorgio Bocca: l’Antitaliano – L’Espresso del 9/10/2008

sabato 4 ottobre 2008

Per aprir bocca si alza la mano


A scuola ci hanno insegnato che per aprire bocca si alza la mano. Prima norma. Le seconda era che bisognava lasciar parlare tutti.
Vecchie regole. Adesso tutti parlano assieme, senza alzare la mano, se non per fare qualche gestaccio. Inutile tornare alle antiche buone maniere, se poi non si considerano i principi base. Il nostro Ministro dell’istruzione non l’ha capito, confondendo la disciplina e il rigore con un candido grembiulino e la minaccia del voto in condotta. Modesti provvedimenti, poco originali, come invece ci si aspetterebbe da un governo che si proclama nuovo e volenteroso di cambiamento. Ma possiamo comprendere il bisogno di tornare al pugno duro. Con i tempi che corrono, si dirà, le possibilità sono poche, ci vuole il piano B. Nessuno, a dire il vero, ha pensato potesse esserci un piano A. Sarebbe bastato, per intenderci, alzare la mano e poi ascoltare ognuno parlare. Non vi è venuto in mente di chiedere ai diretti interessati: studenti e docenti assieme, con tutto il dietro le quinte di pedagogisti e addetti al settore. Snobbati da un governo che impone una legge senza creare il confronto, noncurante di chi la subirà. Mentre nei salotti televisivi si consuma un inutile sproloquio tra volti più o meno noti, felici di dire la loro su un argomento diventato ormai di tendenza (gossip politico!), con la complicità mediatica si svia l’attenzione sui punti meno succosi di questa Riforma. Poi, con un’abilità da finanzieri e la felice approvazione del signor Tremonti, tagliate di netto ottantacinquemila posti di lavoro. Il pubblico, che ignora o che fraintende, viene lasciato a mormorare a proposito delle “aggiustatine” al sistema scolastico, ovvero cambiamenti di forma e non di sostanza, per modificare la facciata e non le fondamenta. Le quali, intanto, vacillano: un rapporto famiglie-insegnanti deteriorato e sbagliato, che sviluppa altrettanti rapporti sbagliati tra lo studente e l’insegnante, tra l’insegnante e la dirigenza. Si salvava, con un voto pienamente sufficiente, la scuola elementare, considerata tra le migliori a livello europeo. Ora viene molestata dall’ipocrisia di voler far passare una manovra economica (volta a rimpinguire le casse vuote dello Stato) con un’azione di miglioramento della scuola stessa. Ben sapendo quanto sia stupido e anacronistico tornare ad un maestro unico.
La verità, signori della politica, è che stando seduti sulle vostre sedie foderate avete dimenticato la scomodità dei banchi di scuola, e come si faceva fatica da piccoli a stare composti, di fronte a un maestro più spaventato di noi, alla sua cattedra fonte di ogni sapere e di ogni timore. Avevamo tutti paura di non essere all’altezza del banco e tendevamo il collo per arrivarci meglio. Il docente invece temeva di non essere all’altezza di ogni alzata di mano, che si sarebbe fatta nel tempo più insidiosa, più sfrontata, più consapevole.
Voi credete di essere già arrivati tuttavia all’altezza di promuovere una legge e di farla applicare, senza aver nemmeno fatto un giretto ai piani bassi, dove l’istruzione si consuma tra una campanella e l’altra. Affondando lo spietato coltello che vi frutterà otto miliardi di euro proprio nel polmone di un organismo senza il quale qualsiasi nazione morirebbe: la scuola.
Gli studenti italiani che non hanno fatto bene il loro dovere verranno rimandati. La signora Gelmini invece studi di più la materia.
E un sette in condotta di sicuro non glielo toglie nessuno....

Consuelo Angioni
Studentessa al IV anno Liceo Classico
(la vignetta di Vauro è stata pubblicata su Il Manifesto)