lunedì 27 aprile 2009

25.04.09 - Un 25 Aprile di lotta contro l’indifferenza

Non riesco a gioire della condivisione del 25 Aprile in quest’anno 2009, con un presidente del Consiglio che getta all’amato popolo (in primis quello della martoriata terra d’Abruzzo, divenuto il suo palcoscenico principale) la ciambella della sua partecipazione per la prima volta a una cerimonia di commemorazione della sconfitta dal nazifascismo, e della vittoria della Resistenza. Non riesco a compiacermi delle dichiarazioni fasulle o stonate dei Maroni e dei La Russa, e neppure di quelle più serie del solito Fini. Non riesco ad accettare l’idea di una Resistenza “condivisa”, pur apprezzando le parole di Napolitano che ricorda il contributo determinante, e non già folclorico, come ci vorrebbero far credere i Pansa di oggi, sulla scia dei Pisanò d’un tempo, del movimento partigiano alla liberazione del Paese, al suo riscatto morale, alla sua indipendenza nazionale. E voglio ribadire che non solo non si può pretendere che, neppure a oltre 60 anni di distanza, la memoria dei carnefici sia “condivisa” dalle vittime (e viceversa), ma che sarebbe sbagliato sul piano storico. La condivisione passa non attraverso la memoria, bensì la storia. E la storia è racconto di fatti realmente accaduti, e susseguente riflessione sui loro perché, sui loro fini, sulle motivazioni degli attori, sui contesti e così via. La storia del biennio 1943-1945 ci dice che ci sono state ragioni giuste e ragioni sbagliate, e che confondere la moralità degli individui che combattevano – gli uni contro gli altri – con la moralità delle cause che li spingevano a combattere, è sbagliato e fuorviante. Ci sono stati i “ragazzi di Salò”, che, in buona fede, in nome di una malintesa fedeltà al capo, al venerato Duce, ritenuto invincibile guerriero e padre protettore della famiglia italiana, hanno servito a Salò; i migliori tra loro – tra i quali alcuni nomi oggi sono assai noti: da Dario Fo a Giorgio Bocca – compresero ben presto da quale parte stesse la verità e la giustizia, e passarono alla Resistenza. O comunque disertarono dall’esercito di Salò, in cui, peraltro, si era reclutati a viva forza, se non si trovavano scappatoie. Il movimento partigiano fu spontaneo, e popolare, anche se frutto di minoranze: ma quelle minoranze non avrebbero potuto operare senza il consenso, attivo o passivo, di stragrandi maggioranze di popolazione. Come i manuali di guerriglia insegnano, il guerrigliero è il pesce, la popolazione civile è l’acqua in cui esso si muove. “Se avessero vinto loro…?”, - così replicò Norberto Bobbio a Renzo De Felice e a un manipolo di fedeli dello storico revisionista, che mettevano in questione il valore della Resistenza, pronti ad assegnare agli uni e agli altri una patente di patriottismo. Se avessero vinto loro: ecco la questione da cui partire, e con la quale dobbiamo dirimere il melenso chiacchiericcio, anche quando assume toni esacerbati, sulle celebrazioni del 25 Aprile. Se avessero vinto loro, invece che i partigiani… Questo dobbiamo scolpire a lettere indelebili nella nostra mente e nel nostro cuore: come sarebbe andata se avessero vinto i nazifascisti. Oggi, da troppe parti – compresa l’Unione Europea – si pretende di porre sullo stesso piano fascismo/nazismo da una parte, comunismo dall’altra, accomunati in una condanna generica quanto generale. Ebbene, il 25 Aprile ci dice che sono stati innanzi tutto i comunisti – gli italiani nella lotta partigiana, ma anche di altri Paesi, a cominciare dai Russi (che hanno pagato il prezzo più altro alla macchina da guerra hitleriana) –, a lottare contro il nazifascismo. E, aggiungo, in Italia, furono i comunisti del vituperato Togliatti a dare un contributo decisivo alla costruzione della Repubblica democratica, dalla Costituente in poi. Negare questa verità acclarata dai documenti significa fare del volgarissimo “rovescismo”. Come continuare a parlare di “guerra civile” per riferirsi al biennio ’43-45 significa dire un pezzo di verità, non certo tutta. E un pezzo di verità è una menzogna. Giacché, come ci ha insegnato tutta la migliore storiografia – Claudio Pavone per tutti – in quei mesi dal settembre ’43 all’aprile ’45 coesistettero tre guerre: una guerra di liberazione nazionale (italiani contro tedeschi), una guerra sociale (classi subalterne contro i ceti privilegiati, favoriti dal regime mussoliniano: il famoso “vento del Nord”, ossia la speranza di un radicale cambiamento sociale), e, infine, una guerra civile (ossia italiani, antifascisti, contro italiani, fascisti). Dunque, la guerra civile fu soltanto una dimensione di quel conflitto drammatico, e insistere su di essa, significa mentire, oltre che banalizzare. O se proprio si vuole tollerare quell’etichetta di guerra civile la si intenda come faceva Franco Antonicelli, indimenticato presidente del CLN Piemontese, il quale commemorando il 25 Aprile, nel suo primo anniversario, il 1946, ebbe a dire che si era trattato di una guerra “che, oltre ad essere militare e anzi prima che fosse militare, fu civile, e cioè moto di cittadini, d’ogni classe cociale, d’ogni età e di entrambi i sessi”. Sì, davvero: se l’Otto Settembre è stato tutt’altro che “la morte della patria”, la sua riscoperta in senso democratico, dal basso; il 25 Aprile è stato il punto conclusivo di quel processo cominciato dall’Armistizio e dal primo formarsi delle bande partigiane. Ancora Antonicelli, l’anno dopo, il 25 aprile 1947, denunciava nel discorso ufficiale l’esistenza di “un’altra Italia”, quella che aveva lucrato col fascismo e che “non ama queste memorie e si affatica solo nel tentativo di distruggerle con la calunnia”. Ebbene, noi, non solo dobbiamo insistere sulla gratitudine a quanti allora fecero la scelta più dura, e si sacrificarono per il bene comune; oggi, noi dobbiamo, in senso più generale, vedere nel 25 Aprile un invito a lottare contro quel “peso morto della storia” che, per dirla con il giovane Antonio Gramsci, è l’indifferenza. In un articolo folgorante del febbraio 1917, Indifferenti, egli lanciava un grido di sfida: “Odio gli indifferenti. Credo … che vivere vuol dire essere partigiani”. E chi più di coloro che – da operai, insegnanti, ferrovieri, postelegrafonici, tipografi, casalinghe, impiegati… – si trasformarono nella diffusa armata della Liberazione d’Italia, sono stati “partigiani” in questo senso? A loro dunque, con o senza il beneplacito del politico al potere, dobbiamo non soltanto rendere onore; dobbiamo soprattutto prenderli ad esempio. Ed essere pronti ad essere partigiani – nel significato che ciascuna epoca e situazione potrà determinare –, per combattere contro quel peso morto della storia che è l’indifferenza.

Angelo d’Orsi (25 aprile 2009)

martedì 7 aprile 2009

L' OSSESSIONE DEL CAVALIERE

STRASBURGO - Cominciata male a Strasburgo, la giornata di Silvio Berlusconi statista internazionale finisce malissimo a Praga. Al vertice Nato il capo del governo si presenta con il telefonino all' orecchio lasciando la cancelliera Merkel ad attenderlo sulle rive del Reno e disertando la cerimonia solenne di commemorazione per i caduti della Nato, tra cui parecchi soldati italiani. A Praga, dove domani si terrà l' incontro Ue-Usa, il presidente del Consiglio lascia esplodere la sua rabbia contro l' informazione. Se la prende, lui che è maestro delle tecniche televisive, contro i video che ripropongono fedelmente su internet le sue gesta maldestre sulla scena mondiale. E minaccia, lui che è proprietario di televisioni e giornali, di lanciare campagne di boicottaggio contro la stampa, colpevole di non riproporre la realtà come piacerebbe a lui. Dopo aver ripetutamente violato la forma e la sostanza delle regole di politica internazionale, Berlusconi finisce così anche per violare la forma e la sostanza della libertà di informazione. I due errori sono più strettamente connessi di quanto si possa credere. Sarebbe infatti ingenuo pensare che il presidente del Consiglio abbia accumulato in pochi giorni un così straordinario numero di gaffe e di figuracce internazionali solo per insipienza. Unico esponente del G8 a non aver potuto incontrare Obama, incapace di acquisire credibilità tra i propri pari, ha adottato la tecnica della rottura del protocollo, per poter vendere almeno qualche scampolo di visibilità sul fronte interno, che è poi l' unico che gli interessi veramente. Per farlo, però, avrebbe bisogno di un controllo pressoché totale sull' informazione di casa propria. E poiché non riesce ad ottenerlo, poiché nell' era di internet e dell' informazione globale neppure il monopolio televisivo basta a garantirgli l' impunità, lascia libero corso alla propria ira pronunciando anatemi contro la stampa. Bisogna riconoscere che Berlusconi ha motivo di essere deluso. Il suo nuovo corso di statista mondiale era stato messo in scena con straordinario senso di opportunismo. Il G20 sancisce una ritrovata unità tra i Grandi del Pianeta? Berlusconi è prontissimo ad inseguire il presidente americano al grido di «Mr. Obama!» e a costringerlo ad una foto-ricordo con il russo Medvedev che farà la prima pagina di tutti i giornali. I leader della Nato decidono che devono superare il veto turco e uscire dal vertice di Strasburgo con un accordo sulla nomina di Rasmussen? Berlusconi viola tutti i protocolli e i più elementari criteri di buona educazione per farsi riprendere dalle televisioni di tutti il mondo mentre telefona, in diretta, al primo ministro turco Erdogan per perorare la causa di Rasmussen. Poco importa che, nonostante i sorrisi di Obama e Medvedev nella foto-ricordo, la situazione dell' economia mondiale resti grave, o che il riavvicinamento dei rapporti tra Russia e Stati Uniti non abbia certo bisogno dei buoni uffici di Berlusconi. Poco importa che, per riconoscimento congiunto dei turchi e degli americani, l' accordo sul nome di Rasmussen sia arrivato dopo due colloqui, venerdì sera a Baden Baden e ieri mattina a Strasburgo, tra Obama e il presidente turco Gul, cui ha partecipato nella fase finale lo stesso Rasmussen. Quello che interessa a Berlusconi, nella stessa implacabile logica televisiva con cui ha conquistato la politica italiana, è l' effetto annuncio. Lascia Londra rivendicando un suo ruolo nel riavvicinamento tra Usa e Russia. Lascia Strasburgo proponendosi come il vero deus ex machina dietro l' elezione di Rasmussen. Le foto, le sequenze televisive, sono la prova di quanto afferma. Al teatrino della politica trasferito su scala internazionale non occorre altro. E peccato se, per ottenere l' effetto «mosca cocchiera», Berlusconi è disposto a sacrificare il contributo reale, certo più modesto, che magari ha effettivamente offerto, come il rafforzamento del nostro contingente in Afghanistan o l' opera di persuasione che può aver esercitato sul suo amico Erdogan. Naturalmente il capo del governo non è contento quando la stampa riferisce la costernazione del resto del mondo di fronte alle sue imprese. «Con voi giornalisti non parlo più, perché io lavoro per l' Italia e voi lavorate contro l' Italia» aveva dichiarato già venerdì sera a chi lo attendeva al rientro in albergo. Ma questa logica televisiva dell' apparire a tutti costi, anche pagando il prezzo di brutte figure fa davvero bene al Paese?O fa bene solo al capo di governoe alla sua perenne ricerca di applausi domestici? Sarebbe bello se, almeno quando varca i confini nazionali, il presidente del Consiglio ricordasse che le due istanze, il suo interesse e quello dell' Italia, possono anche non coincidere. La libertà di stampa, invece, coincide sicuramente con l' interesse di una democrazia. Perché la cronaca non è diffamazione e la critica non è calunnia.

ANDREA BONANNI La Repubblica 05/04/2009
Segnalato da Gianni Stroppa

lunedì 6 aprile 2009

Quanto vale quel 'però'

Un anno dopo le elezioni politiche è difficile parlare ancora di bipartitismo o di bipersonalismo. Visto che il PD ha rischiato di sfaldarsi, un paio di mesi fa. Stressato dalle sconfitte elettorali - ultima la Sardegna - e dai sondaggi sfavorevoli, che lo stimavano al 22%. Mentre Berlusconi ha affondato l' ultimo di una lunga serie di avversari. Walter Veltroni. Peraltro, il congresso fondativo del PdL ne ha ulteriormente accelerato la crescita elettorale. Ma soprattutto ha celebrato l' ennesima, ulterioree mai definitiva investitura dell' unico, vero, Numero Uno. Altro che SpecialOne. Altro che Mourinho. BerluscOne. Tre giorni dedicati al Partito del Presidente. E al presidente del partito. Unica voce dissonante: Gianfranco Fini. Che, però, oggi nel PdL conta poco. Gli stessi dirigenti di AN (a differenza degli elettori), in larga misura, non rispondono più a lui. Però. Qualche dubbio viene (a me personalmente, almeno). Dopo un' investitura personale tanto fastosa. Come sempre perfetta, sotto ogni punto di vista. Scenografia, script, luci, musica e colori. Comprimari e comparse. Un kolossal musicale hollywoodiano. Tutto questo è "troppo". BerluscOne. Troppo solo, troppo grande, troppo vincente, troppo amato, troppo celebrato. Troppo. Senza limiti e senza nessuno che glieli ponga. Salvo le "puntuali puntualizzazioni" di Fini. E i rimbrotti di Bossi. Che guarda BerluscOne di traverso. Un amico necessario. Ma così distante dal suo stile "popolano"... Questo leader unico di un partito che ambiscea sfondare la soglia del 40% e, insieme agli alleati, quella del 50%. Per diventare, così, il Presidente. Di fatto. Senza bisogno di riforme. L' immagine di BerluscOne: ci sembra "troppo". Fastosa, rutilante, eccedente. Evoca un' Italia ipercinetica, disordinata, bulimica, vecchia e, insieme, un po' egoista. Un popolo di individui che hanno conquistato il benessere e premono per riuscire, affermarsi. Apparire. Questa Italia, che si specchia nell' immagine e nella narrazione di BerluscOne, all' improvviso ci pare meno credibile. Fuori tempo. Resa inattuale dalla crisi pesante che incombe, anzi: è crollata su di noi e fa già vittime un po' dovunque. Magari ci sbagliamo. In fondo ha sempre ragione lui. E poi, annunciare il declino di Berlusconi: figuriamoci. Soprattutto oggi che Berlusconi è al top. Mentre il PD è al bottom. Il suo segretario, Dario Franceschini. Una brava persona. Difficile, il confronto con Silvio Berlusconi. Il predestinato. Il vincitore nato. Esuberante e arrogante. Non si ferma neppure di fronte a Obama(aaaaa!!!). Né alla Merkel. Ai vertici internazionali si comporta come fosse a casa propria. E però. Franceschini, il "modesto" leader provvisorio del PD, per grado di consensi è lì. Alla pari con BerluscOne. Entrambi riscuotono la fiducia di circa il 45% degli italiani. (La componente di quanti valutano la fiducia nei loro riguardi con un voto uguale o superiore a 6, in una scala da 1 a 10. I materiali a cui fa riferimento questa mappa sono consultabili su http://www.demos.it). D' altronde, nei sondaggi di Demos, solo nel maggio 2008, un mese dopo il "trionfo" elettorale, Berlusconi scavalcò di netto questo livello, superando il 60%. Ieri come oggi, invece, il più amato dagli italiani è Gianfranco Fini, come sempre, in passato. Anche perché era-e resta- un outsider. Invece Franceschini è il leader di quello che - per quanto indebolito - resta il maggiore partito di opposizione. Naturalmente la fiducia personale non si traduce, automaticamente, in voti, come ha potuto constatare Veltroni. Però. Nell' ultimo mese, il Pd - nelle stime elettorali - ha ripreso a risalire con continuità. Anche nell' ultima settimana. Oggiè attestato intorno al 27%. Dunque,6 punti meno di un anno fa, ma 4-5 più di febbraio. D' altronde, il 75% degli elettori del Pd ha fiducia in Franceschini e il 33% lo vorrebbe come segretario. Ma Franceschini riscuote dal 59% degli elettori dell' IdV, da oltre metà di quelli di RC-SL e dell' UdC. Quindi: dal centro a sinistra. Anche il 60% degli "esuli" del PD (quelli che, dopo averlo votato un anno fa, se ne sono allontanati) oggi esprime fiducia nei suoi riguardi. E il 20% di essi lo voterebbe come segretario di partito. Gli elettori del PD continuano ad essere frustrati e disincantati. E però: guardano Franceschini con rispetto. Anche se è modesto. O forse proprio per questo. Perché la modestia e la sobrietà, in questi tempi, è una virtù. E un' immagine sobria e modesta può riuscire credibile di fronte a un paese preoccupato e impoverito. E poi Franceschini non si maschera da Berlusconi né da antiberlusconi. Dice poche cose, ma "di sinistra". In modo chiaro e comprensibile. E, per questo, funziona anche in tivù (come aveva previsto Berlusconi). Inoltre, ha la possibilità di esprimersi senza altri leader intorno pronti a contraddirlo e a dargli sulla voce (non capitava da anni). Intenti a tramare per sostituirlo (in fondo è un leader transitorio). Non sarà molto. Ma a molti elettori del PD - illusi, delusi, esuli, disperati - sembra già abbastanza. Non c' erano più abituati. Così guardano Franceschini senza illusioni e con prudenza. E però... Certo, per andare oltre ci vuole altro. Un partito organizzato. Non solo in centro, anche in periferia (dove le guerre e le guerricciole si moltiplicano). E poi, qualche idea chiara. Una fase congressuale vera, con primarie vere e candidati veri. In mezzo, un buon risultato alle europee. E però. Il BerluscOne non può permettersi battute d' arresto. Dopo gli annunci al congresso: il PdL a giugno dovrà stravincere. A Franceschini, più modestamente, per vincere basterà non perdere troppo.

ILVO DIAMANTI La Repubblica 05/04/2009
Segnalato da Gianni Stroppa